82
«Sai, a Quantico abbiamo studiato un caso di due assassini che lavoravano in coppia» disse Emily quando tornammo nella sala operativa. «Un caso da manuale. Oden e Lawson. Uno era uno psicopatico stupratore, l’altro uno schizofrenico. Oden violentò una ragazza e poi la passò a Lawson, che la uccise e la mutilò. Ognuno ebbe ciò che desiderava.»
«E con questo cosa vuoi dire?» risposi, ancora irritato per essermi fatto sfuggire Carl per un pelo.
«In questo caso, Apt sta uccidendo i nemici di Berger nel modo in cui voleva Berger. Seguiva ordini precisi, come gli addetti al catering con cui abbiamo parlato. Io qui ci vedo Berger, non Apt.»
«Hai ragione» dissi. «Anche se gli omicidi sembrano opera di un sadico, in realtà non lo sono. Sono assassini pianificati, costruiti.»
«Esattamente. Apt mi dà l’idea di un assassino su commissione, freddo, calcolatore, competente. Ma non riesco a capire cosa ci guadagni. Denaro? Forse è solo pazzo. Chi lo sa?»
«No» dissi. «La tua intuizione è giusta. Apt ci guadagna qualcosa. Dev’essere così.»
«Sembri così sicuro... come fai a saperlo?»
«La quadruplice radice del principio di ragion sufficiente» risposi. «Ogni cosa percepita ha una causa. Ogni conclusione ha delle premesse. Ogni effetto ha una causa. Ogni azione ha una motivazione.»
«Mio Dio, adesso ti metti a citare Aristotele?» disse Emily, concedendosi il primo sorriso di quel pomeriggio. «Oppure la quadruplice radice è di Tommaso d’Aquino, tu che sei un ragazzo di chiesa?»
«In realtà è di Arthur Schopenhauer» dissi, fingendo un grande sbadiglio.
«Tu leggi Schopenhauer?» disse Emily, inarcando un sopracciglio.
«In spiaggia.»
Stavo schivando una bottiglia di Gatorade vuota quando il mio capo uscì dal suo ufficio.
«L’hanno trovata» annunciò Miriam. «Paulina Dulcine. Andate sul Queensboro Bridge.»
In realtà si trovava sotto il Queensboro Bridge, accanto a una stazione di servizio della Mobil su York Avenue. Imboccammo una piccola strada di servizio e scendemmo fino all’East River. In fondo al parcheggio accanto a un eliporto abbandonato, vedemmo del nastro giallo avvolto intorno a una recinzione di rete metallica a isolare la scena del crimine.
Oltre la recinzione, c’erano cinque o sei poliziotti sparpagliati sulla riva disseminata di massi. Sul sentiero che correva sotto il ponte si era formata una piccola folla. Vidi un ciclista con bici da corsa e tutina Speedo accanto a un gruppo di baby sitter giamaicane appoggiate ai passeggini Maclaren. Avevano l’aria annoiata, come se stessero aspettando che cominciasse il bello.
«Com’è arrivata la chiamata?» chiesi a un agente in uniforme giovane e alto con la faccia da folletto incaricato di tenere il registro della scena del crimine.
«Da un telefono pubblico.»
«Incredibile.»
«Cosa, che qualcuno abbia chiamato?» disse il giovane.
«Che qualcuno abbia trovato un telefono a pagamento funzionante a Manhattan.»
Quando Emily e io ci avvicinammo a un cartellino giallo a ridosso della riva, ci passò la voglia di scherzare. Era vicino a un bidone di pittura. Accanto a questo, un poliziotto in uniforme corpulento accucciato sui sassi fumava una sigaretta. La sua espressione sconfortata e allucinata non avrebbe potuto essere più allarmante.
Non sarebbe stato piacevole, pensai, avvicinandomi finalmente al bidone.
Non volevo abbassare lo sguardo e aggiungere un altro incubo alla mia lunga lista. Ne avevo visti già troppi.
Ma era il mio lavoro.
Abbassai lo sguardo.
E rimasi scosso fin nel profondo. Per un momento la razionalità mi abbandonò. Non è facile per la mente accettare certe cose.
Dentro il bidone c’era la testa di Paulina. La faccia era voltata verso il cielo, gli occhi aperti. Mi guardava come se mi implorasse. Sembrava fosse stata sepolta nel terreno con la testa fuori o stesse cercando di uscire dal boccaporto di una nave e vi fosse rimasta incastrata.
Quel pervertito figlio di puttana era riuscito in qualche modo a infilare la testa della ragazza decapitata nel bidone.
Emily si avvicinò e mi posò una mano sulla spalla.
«Dobbiamo prenderlo, Emily» dissi, dopo un istante di silenzio.
D’un tratto lei tirò fuori l’iPhone.
«Cosa stai facendo?» le chiesi.
Lei continuò a digitare e a far scorrere il dito sullo schermo, frenetica, ignorandomi.
«Lo sapevo! Eccolo qui! Joel David Rifkin. Parti della sua vittima furono trovate nell’East River! È scritto qui. La testa della donna era stata tagliata di netto e infilata in un bidone di pittura vuoto.»
«E adesso, chi sarebbe questo Rifkin?»
«Un serial killer di Long Island. Negli anni Novanta» rispose Emily. «È stato dichiarato colpevole dell’omicidio di nove prostitute. Le picchiava con un corpo contundente, poi le strangolava e mutilava i loro corpi. Alcuni sostengono che ne abbia ammazzate almeno venti. Apt sta imitando un altro killer di New York.»
Un’ombra passò sopra di noi. Alzai lo sguardo. Era la funivia di Roosevelt Island. Osservammo entrambi la cabina rossa che avanzava precaria nell’aria sopra l’acqua sempre più scura.
«Forse c’era qualche strano accordo tra Berger e Apt» dissi, pensando a voce alta. «Tipo un patto di obbedienza. Apt sembra programmato. Berger gli ha fatto il lavaggio del cervello.»
«Potrebbe essere una cosa positiva» osservò Emily mentre ci avviavamo verso la macchina. «Magari quando Apt scopre che Berger è morto, potrebbe sentirsi liberato. Tornare in sé.»
«Possiamo solo sperarlo» dissi, senza riuscire a togliermi dalla mente la faccia di Paulina.