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Invece di dirigermi in città, nella mia affollatissima sala operativa, costeggiai Manhattan e presi il ponte di Triborough in direzione nord verso la New York State Thruway. Un’ora e mezzo dopo ero su, nella Sullivan County, vicino a Monticello, e guidavo tra foreste di pini, laghi e fattorie sorseggiando un caffè preso da un Dunkin’ Donuts in un’area di servizio.

La zona rurale che stavo attraversando era vicina al luogo in cui si era svolto Woodstock e che ospitava anche i centri di villeggiatura della Borscht Belt, dove comici ebrei come Milton Berle, Don Rickles e Woody Allen avevano iniziato la loro carriera.

Purtroppo, la mia visita non aveva niente a che fare con la musica e ancor meno con il cabaret. Quella mattina ero diretto a Fallsburg, dove si trovava il carcere di Sullivan.

Il mio capo e io avevamo deciso che era venuto il momento di fare una chiacchierata con il suo ospite più illustre, David Berkowitz, il killer della .44. Il Figlio di Sam.

Le ragioni di quella visita erano molteplici. Una delle più impellenti era che il duplice omicidio avvenuto nel Queens lunedì notte non era l’unico delitto recente commesso da un emulo del Figlio di Sam.

Un’ora dopo aver inserito la pista del Figlio di Sam nella rete informativa del dipartimento, ricevemmo una chiamata da un brillante detective del Bronx, il quale ci aveva raccontato che la domenica precedente un’adolescente ispanica era sopravvissuta per un soffio a uno strano accoltellamento a Co-op City. L’aggressore indossava una parrucca che lo faceva assomigliare a David Berkowitz e aveva rivolto alla ragazza frasi a dir poco eccentriche mentre la feriva con tutta calma. L’aggressione replicava quasi alla perfezione il primo crimine di Berkowitz, l’accoltellamento casuale di una ragazza avvenuto a Co-op City nel 1975.

Erano molte le persone con cui avrei preferito passare la mattinata, ma poiché pareva esistesse un qualche collegamento tra Berkowitz e la recente serie di omicidi, pensavo potesse essere utile avere un colloquio con lui. Probabilmente si sarebbe rivelato un buco nell’acqua ma, con sette omicidi e nessuna pista da seguire, non si poteva trascurare nulla.

Il carcere di Sullivan era nascosto dietro un’alta cortina di pini, a qualche chilometro dalla via principale del piccolo centro di Fallsburg. Appena vidi il filo spinato e gli edifici di cemento costruiti a gradoni su una collina, il caffè nel mio stomaco si agitò. Sullivan è un carcere di massima sicurezza che ospita molti tra i più violenti criminali della città di New York. Lo sapevo perché alcuni ce li avevo spediti io.

Sotto lo sguardo impassibile di una guardia venni ammesso nell’edificio amministrativo del complesso sud, dove firmai un registro e con riluttanza consegnai la pistola di servizio. Fui scortato nell’ufficio di Doug Gaffney, il direttore della prigione, con cui avevo parlato il giorno precedente per fissare il colloquio.

Calvo e tracagnotto, polo e pantaloni sportivi, Gaffney mi ricordava più un allenatore di calcio di mezza età che il direttore di un carcere. Sullo scaffale dietro la sua scrivania erano allineati libri sulla gestione della rabbia e l’abuso di droghe, insieme a un grosso raccoglitore sulla cui costa era scritto COMPETENZE PER LA VITA.

«Grazie per aver organizzato tutto, Doug» dissi, dopo avergli stretto la mano, e mi sedetti.

«È per il caso cui sta lavorando? Gli attentati dinamitardi?» chiese Gaffney quando la sua segretaria ebbe chiuso la porta.

«Sì, ma deve restare confidenziale, come la mia visita» risposi, raddrizzando la schiena. «La stampa ci sta già addosso. Non vorrei fargli vendere più giornali di quanto già non facciamo. Cosa devo aspettarmi da Berkowitz?»

«Non si preoccupi. Non dobbiamo mettergli una maschera da hockey o roba del genere» disse Gaffney con un sorriso. «Da quando io sono qui, è stato un prigioniero modello. Adesso coordina un gruppo di preghiera. Aiuta persino i detenuti ciechi a tornare nelle loro celle.»

«Ho sentito parlare della sua conversione religiosa. Lei ci crede?»

«Le mie convinzioni esulano da queste mura, Mike, ma chi lo sa?» rispose, prendendo una radio dalla base di ricarica dietro di lui. «Se è pronto, l’accompagno.»

Conto alla rovescia: Un caso di Michael Bennet, negoziatore NYP
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