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Dopo quell’exploit da Casanova, invece di andare diretto a casa, decisi di fermarmi allo Sugar Bowl per applicare qualcosa di freddo sul mio cuore ferito – o era il mio ego? Non riuscivo a decidere. Sorseggiai una Heineken tonificante guardando i Mets perdere contro i Cubs al Citi Field. Pareva proprio che quella sera nel Queens ci fosse un’epidemia di fiaschi.
Mentre affogavo le mie pene ripensai a quanto era appena successo tra me e Mary Catherine. O, per essere più precisi, mi rammaricai per quanto non era successo.
Perché, dovevo ammetterlo, era stato un bel bacio. Dolce, tenero e sorprendentemente sensuale. Mi sarebbe piaciuto restare giù sulla battigia con lei e magari rivivere una versione newyorkese della famosa scena d’amore di Da qui all’eternità. E invece lei era scappata a gambe levate come se fosse una scena dello Squalo.
«Ehi, come sei carino» disse una ragazza con i capelli scuri accanto al tavolo da biliardo mentre uscivo dal bagno degli uomini cinque minuti più tardi.
Mi fermai di botto e la osservai. Era attraente, sulla trentina, in canottiera e calzoncini, il volto grazioso un po’ alticcio, un tatuaggio di Campanellino sulla caviglia sinistra. Non riuscivo a ricordare l’ultima volta in cui ero stato abbordato da una giovane carina e un po’ brilla con un tatuaggio sulla caviglia. Probabilmente perché non mi era mai capitato. Il mio rilevatore di prede estive suonava all’impazzata. Forse, dopotutto, la serata non sarebbe stata un totale fallimento.
Prima che potessi trovare una risposta brillante, mi arrivò un messaggio sul cellulare.
Guardai il display. Era di Mary Catherine. Ovvio. Proprio adesso? pensai, aprendo il messaggio.
Scusa se ho perso la testa, Mike. Sto mettendo a letto i bambini. Ho lasciato aperta la porta sul retro.
«I bambini?» disse Campanellino, sbirciando il messaggio sul mio BlackBerry da dietro le mie spalle. «Dov’è la fede nuziale? Te la sei infilata in tasca? Vergognati, verme.»
Aprii la bocca per spiegare ma subito dopo la richiusi, rendendomi conto che Campanellino aveva ragione. Cosa stavo facendo? Non ero più un ragazzo che fa il giro dei bar in cerca di avventure. E decisamente non ero Peter Pan. Semmai, ero più simile alla vecchietta che viveva in una scarpa. Qualcuno doveva comportarsi da adulto, e purtroppo quel qualcuno ero io.
Posai una banconota da cinque dollari sul bancone e uscii.
Dieci minuti più tardi rientrai al cottage passando dalla porta sul retro. Attraversai in punta di piedi quello che chiamavamo il «dormitorio», la grande, caotica stanza in cui dormivano tutti i maschi su divani letto e materassini gonfiabili. Dormivano profondamente, esausti e cotti dal sole, facendo sogni felici di mezza estate, dopo un’altra giornata densa di tutte le attività che la zona dei tre Stati aveva da offrire.
Chrissy, la più piccola, rise nel sonno quando le diedi il bacio della buona notte nella camera delle ragazze, più piccola ma altrettanto affollata. Guardai la montagna di conchiglie sul tavolo. Almeno loro si stavano divertendo.
Stavo andando verso la mia branda quando, attraverso la porta socchiusa, vidi Mary Catherine. Con gli occhi chiusi, aveva un’aria eterea, sovrannaturale, serena come uno di quegli angeli che si vedono nei cimiteri.
Mi costrinsi a distogliere lo sguardo e a proseguire lungo il corridoio prima di cedere al desiderio di entrare e dare un bacio della buona notte anche a lei.