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Era giusto l’ora di punta del rientro quando mi ritrovai bloccato sotto gli archi del ponte di Brooklyn, diretto verso il mio ufficio.
Mentre avanzavo a passo d’uomo sul ponte, guardavo con aria torva la mia sede di lavoro, il One Police Plaza, per colpa della quale non riuscivo a godermi le ferie. L’edificio, un cubo di cemento, era già brutto ancor prima che, dopo l’Undici settembre, gli costruissero attorno guardiole e grosse fioriere che fungevano da barriere anti-bomba. Poiché il traffico proveniente dal quartiere della finanza era stato dirottato per motivi di sicurezza, alcuni commercianti di Chinatown avevano piantato un gran casino, proponendo che la sede centrale della polizia venisse spostata altrove. Continuavo a sperare che decidessero di trasferirla alle Hawaii, ma fino a quel momento non si era ancora saputo nulla.
Quando imboccai finalmente la rampa di uscita dal ponte, vidi i furgoni delle reti televisive parcheggiati in doppia fila. Poiché i reporter e gli operatori sul marciapiede accanto ai veicoli sembravano particolarmente infervorati, feci un favore a me stesso e decisi di tirare dritto.
Proseguii verso sud per alcuni isolati e mi fermai davanti a un edificio coperto di graffiti che ospitava un negozio di gastronomia all’angolo tra la Madison e la James. Presi un caffè, una di quelle tortine confezionate e una copia del Post, che, con la solita sobrietà, titolava in prima pagina: CHI SARÀ IL PROSSIMO?
Per ironia della sorte, quando uscii sul marciapiede trovai seduto sul cofano della mia auto Gary Aronson, il reporter di nera del New York Post, probabile autore di quel titolone. Come molti giornalisti che si occupano di criminalità, Gary era privo di scrupoli. Si dichiarava daltonico e dislessico per giustificare la sua abitudine di ignorare il nastro che la polizia usava per isolare le scene del crimine.
Invece di tornare alla mia auto, mi diressi subito a sinistra ed entrai da Jerry’s Old School, un negozio di barbiere che utilizzavo ogni tanto come luogo di incontro con i miei informatori.
E per poco non andai a sbattere addosso a Cathy Calvin, la reporter di nera del New York Times, impegnata a messaggiare sul BlackBerry accanto alla porta sotto un poster che ritraeva il rapper Uncle Murda.
Lanciai un’occhiataccia al muscoloso proprietario, Jerry appunto, che stava aggiustando la sfumatura a un ragazzo cinese.
«Non c’è più niente di sacro, amico?» gli chiesi, girando immediatamente sui tacchi per uscire.
Quando mi raggiunse sul marciapiede, Calvin aveva sostituito il BlackBerry con un registratore.
«Abbiamo una serie di attentati dinamitardi, un duplice omicidio che assomiglia molto a quello del Figlio di Sam, e adesso è scomparsa una bambina. Gira voce che le tre cose siano correlate. Che sta succedendo, detective?»
Come se avessi tempo per esibirmi nel circo mediatico.
«Hai dimenticato che io con te non parlo?» dissi, allungando il passo.
«Era solo per l’ultimo caso» ribatté Calvin.
«Finalmente» fece Aronson, tirando fuori anche lui il registratore, mentre scendeva dal cofano della mia Impala.
«Questo è mio, Gary» disse Calvin, allontanandolo con un gesto della mano.
Il reporter del Post obbedì, facendole cenno di richiamarlo. I giornalisti che si occupavano di nera facevano comunella tra di loro. Erano una combriccola di sconsiderati senza scrupoli. Avevano addirittura una saletta tutta per loro al secondo piano del quartier generale della polizia, chiamata «la Tana», dove si inventavano sempre nuovi modi per intralciare il nostro lavoro.
«Non è vero, Gary» dissi, aprendo la portiera. «Vuoi delle informazioni? Parla con quelli del tredicesimo piano, Cathy mia cara. Sono sicuro che saranno felici di dirti tutto quello che ti serve.»
Il tredicesimo piano ospitava l’ufficio per le Relazioni con il pubblico del dipartimento. Le ultime notizie che mi erano giunte dicevano che, poiché il caso era a un punto morto, il suo responsabile – che si trovava sotto pressione – aveva chiesto certe parti vitali del mio corpo per colazione.
«Su, Mike, io mi occupo di notizie, non di propaganda» disse Calvin, alzando gli occhi al cielo.
«Non è quello che dicono alla Fox News» ribattei, prima di saltare a bordo della mia auto.