20
Il traffico verso Manhattan era meno intenso del solito a causa delle notizie angoscianti. La sera prima ero tornato a casa con l’Impala di servizio e, imboccata la Long Island Expressway, misi l’acceleratore a tavoletta, luci e sirena al massimo.
Evitai di sintonizzarmi sull’affollata banda radio della polizia e misi l’iPod al massimo su Gimme Shelter dei Rolling Stones. Mi sembrava che il rock duro e folle degli anni Settanta fosse la colonna sonora più appropriata per il mondo che cadeva a pezzi.
L’Unità Antiterrorismo al gran completo aveva già istituito un posto di blocco all’imbocco del Queensboro Bridge. Invece di fermarmi, buttai giù una riga di coni spartitraffico, invadendo la banchina, e tirai fuori il distintivo, sfrecciando davanti al giovane agente di guardia alle transenne a una velocità di sessanta chilometri orari. Trovai altri due posti di blocco, uno tra la Cinquantesima e la Terza, e l’ultimo tra la Quarantacinquesima e la Lexington. Con l’urlo delle sirene nelle orecchie, parcheggiai dietro un’ambulanza e scesi.
Dietro le transenne pedonali di metallo a sud, decine di vigili del fuoco e poliziotti correvano in ogni direzione. Scossi la testa e mi unii a loro.
Quando arrivai all’angolo e vidi il camion divorato dalle fiamme, rimasi lì a fissarlo a bocca aperta.
Vidi Cell, il capo degli artificieri, in fondo a un atrio coperto di macerie. Pareva ci fosse stato un crollo. Prima di farmi passare, uno dei vigili del fuoco del centro di comando istituito sul luogo dell’esplosione mi fece indossare una tuta di tyvek e una maschera protettiva completa.
«Direi che il nostro amico non mentiva, a proposito della successiva» disse Cell. «Sembra lo stesso esplosivo al plastico che abbiamo trovato alla biblioteca.»
Sorrise, ma nei suoi occhi vidi un gelido furore. Era arrabbiato. Tutti noi lo eravamo. Nonostante i filtri della maschera, riuscivo a sentire l’odore della morte. Morte, polvere di cemento e metallo bruciato.
Impossibile prevedere cosa sarebbe successo dopo.