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«Signore, vi ringrazio per essere venute» disse un sergente dell’Unità d’emergenza con un fisico da linebacker, aprendo il portellone posteriore di un furgone Ford Econoline nero lucidissimo, fermo in Central Park.
Altri due furgoni uguali a quello erano parcheggiati in cerchio nel nostro punto di raccolta dietro il Metropolitan Museum of Art. Più di venti uomini tra agenti dell’Unità d’emergenza e membri della Hostage Rescue Team, la squadra Liberazione Ostaggi dell’FBI, e della squadra Artificieri del Dipartimento di polizia di New York erano pronti a mettere la parola fine a quel caso anche con una soluzione estrema. Poiché era già morto un poliziotto e l’autore dei crimini era molto bravo nel maneggiare esplosivi, erano state prese tutte le precauzioni per neutralizzarlo.
Emily e io ci infilammo i pesanti giubbotti antiproiettile mentre un uomo basso e muscoloso, coi capelli brizzolati, avambracci enormi e la testa rasata come un marine ci stringeva la mano fino a farci male. «Agente Hobart!»
Dopo essersi presentato col tono di voce di un sergente istruttore, il capo della squadra Liberazione Ostaggi girò verso di noi il Toughbook che teneva in grembo.
Sullo schermo c’erano le immagini del palazzo anteguerra in cui abitava Berger e che si trovava circa settanta metri più a est rispetto alla nostra posizione. C’erano alcuni primi piani dell’attico, un’impressionante struttura di pietra. Pareva un palazzo barocco sospeso in cielo, con tanto di colonne, rientranze e giardini.
«Guardate un po’ qui. Questo sarebbe l’appartamento di Berger» disse Hobart, quasi gridando. «Seicentocinquanta metri quadri di attico disposti su tre piani.»
Non riuscivo a crederci. Seicentocinquanta metri quadri? Nell’Upper East Side? Com’era possibile?
«Proprio così» disse Hobart, guardandomi. «Ha capito bene. Seicentocinquanta metri quadri.»
«Accidenti, devo proprio trovarmi un lavoro al John Jay» disse il poliziotto seduto sul sedile passeggero del furgone. Era un asiatico basso e tozzo che assomigliava a Odd Job.
«Sta’ zitto, Wong» gli ordinò Hobart, burbero. «Queste foto sono state scattate dai nostri tiratori scelti dal tetto dell’edificio di fronte, sull’altro lato della Settantasettesima Strada. Come potete vedere, tutte le tende sono tirate, quindi non ci sono di grande aiuto. Il custode del palazzo ci ha detto che ci sono almeno sette camere da letto, terrazze su ogni lato, due scale separate e persino un ascensore interno. Un vero labirinto. Un incubo, se devi fare irruzione.»
«Ma per un cocktail party è fantastico» osservò Wong.
Hobart gli lanciò un’occhiata feroce e proseguì.
«Il custode ci ha detto anche che Berger vive come un recluso e che lui non lo vede da anni. Ha i suoi fornitori personali e il suo staff di domestici, i quali devono aver firmato accordi di riservatezza, perché non parlano neppure con i portinai di quanto succede lassù. In pratica Berger fa quello che vuole perché è il più grosso azionista, nel condominio. Abbiamo fatto mettere sotto controllo il suo telefono da un’ora, ma non ci sono state telefonate, né in partenza né in arrivo. Silenzioso come un mausoleo.»
«E gli assomiglia pure, no?» dissi.
Hobart annuì.
«Se dipendesse da me, entrerei alle due di notte con i visori notturni. Ma visto che dobbiamo agire adesso, prima di fare irruzione taglieremo i cavi della corrente che vanno all’appartamento, caso mai il nostro Bombarolo Pazzo ci avesse preparato qualche trappola.»
Hobart si voltò e si rivolse alla folla di uomini vestiti di nero alle nostre spalle.
«Ricordate, gente, dopo che avremo sfondato la porta, le tre squadre si divideranno. Una per piano. Berger Meister potrebbe essere ovunque, nascosto Dio solo sa dove, quindi voglio una perlustrazione accurata stanza per stanza. E, prima di aver anche solo pensato di toccare qualcosa, consultatevi con l’artificiere. Capito? Bene. Adesso non ci resta che aspettare l’okay dei burocrati.»
Nei quindici minuti che seguirono, ascoltammo i tizi dell’Unità di emergenza caricare le armi e scambiarsi informazioni su «parametri tattici», «frequenze sicure» e «risorse operative». Seduti su una panchetta di metallo lungo la parete del furgone soffocante, Emily e io provammo gli auricolari e controllammo le pistole.
Lanciai un’occhiata fuori dal finestrino di vetro riflettente colorato del furgone e guardai verso ovest, dove l’antico obelisco egizio di pietra noto come Ago di Cleopatra si stagliava contro il cielo azzurro e luminoso sopra Central Park. Sul sentiero che gli passava accanto correva una donna grassa seguita da un dog sitter che si tirava dietro un branco di dieci cani.
Non so se fosse più alta la temperatura, l’adrenalina o la tensione. Ero elettrizzato, perché finalmente eravamo sulle tracce di Berger, ma anche diffidente. Avevo visto con i miei occhi di cos’era capace. Non solo lui era furbo, efficiente e spietato, ma noi non avevamo alcuna informazione sul luogo in cui si nascondeva.
Non era come tirar fuori un drogato nascosto in un armadio a muro, riflettei, osservando la foto dell’attico. Semmai, stavamo per infilare la mano in un buco nero nel terreno per tirar fuori una vipera.
«Alfa Uno, abbiamo l’okay» disse una voce nel mio auricolare dopo cinque interminabili minuti. Il furgone prese vita con un rombo e svoltò bruscamente a destra con uno stridore di pneumatici.
«E vai! Ci siamo!» urlò l’agente Wong con un gran sorriso mentre si aggiustava il sottogola dell’elmetto. «Stiamo per fare irruzione in un attico da sogno!»