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Erano solo le nove del mattino quando mi fermai davanti al Madison Square Garden sulla Settima Avenue per prendere l’agente Parker alla Penn Station, ma mi sentivo già suonato. Me ne stavo illegalmente parcheggiato, senza alcun pudore, in una zona vietatissima a mangiare un bagel con una magnum di caffè, incurante del coro di clacson.

Mentre il mondo crudele e rumoroso mi sfrecciava accanto al finestrino, ripensai a quanto era successo con i Flaherty la sera prima. Altro che fuochi d’artificio! Avevo infranto un bel po’ di leggi, vero? L’uso improprio della pistola di servizio era un crimine punibile con il licenziamento. L’aggressione era un reato grave. Ma la cosa più strana era che pareva aver funzionato. Ero finalmente riuscito a comunicare con Flaherty nell’unica lingua che sembrava comprendere. Perché non lo avevo minacciato di morte fin da subito?

Scossi la testa. Mi ero comportato peggio di un Westie. Era un bene? Non ne ero certo. Probabilmente no.

La pressione che sentivo su di me per quel caso non era il massimo per la mia salute mentale. Avevo decisamente bisogno di una vacanza. Un momento. Io ero in vacanza.

Mi misi a sfogliare il Post. A pagina tre un senatore di Manhattan annunciava che la polizia di New York aveva ancora cinque giorni di tempo per catturare il colpevole, dopodiché lui avrebbe presentato una mozione per far intervenire la polizia di Stato.

Per me andava benissimo, pensai, leccandomi il pollice per girare la pagina. Sarei stato felicissimo di lasciare che fosse un poliziotto di Schenectady a provare a risolvere il caso. Dopo il sindaco, i giornali e i pezzi grossi del dipartimento, ora anch’io cominciavo a desiderare di lasciare quel caso.

Sapevo che, con ogni probabilità, prima o poi lo avremmo preso, quel mostro – fino a quel momento li avevo presi tutti – ma cominciavo a essere sinceramente preoccupato.

Specialmente per Angela Cavuto.

Il rapitore non si era ancora fatto vivo, non aveva avanzato alcuna richiesta. Nessuna notizia significava cattive notizie. L’unica nota positiva era l’identikit del rapitore elaborato dal disegnatore della polizia con l’aiuto del signor Cavuto. Quella mattina lo avevano mandato all’ufficio per le Relazioni con il pubblico perché fosse mostrato in tutti i notiziari, e quello era già un tentativo. Non sapevo quanto sarebbe stato utile, ma era pur sempre un inizio.

Dopo qualche altro minuto di attesa guardai l’ora sul telefono e scesi dall’auto, lasciandola in mezzo alla corsia riservata agli autobus. Se l’avessero rimossa forse sarei potuto tornarmene in vacanza, pensai, salendo sulle scale mobili che portavano alla Penn Station.

Pensavo che nulla avrebbe potuto alleviare il mio malumore finché non vidi Emily Parker che mi salutava con la mano dal marciapiede affollato del treno. Era ancora più bella di come me la ricordavo: alta, pelle color porcellana, occhi più azzurri e scintillanti che mai. Il suo entusiasmo e la sua energia erano contagiosi. Credo di aver addirittura sorriso quando ci trovammo faccia a faccia.

Ci abbracciammo e lei mi diede persino un bacio sulla guancia. Non esattamente secondo il protocollo dell’FBI, ma piacevole.

«Finalmente sono arrivati i rinforzi» dissi, prendendo la sua borsa da viaggio. «Emily, non sai quanto sia felice di vederti.»

«Anche per me è un piacere vederti, Mike» disse, stringendomi di nuovo la mano. «Davvero. Sono felice di essere venuta. Stai benissimo.»

«Ma certo. Potrei finire sulla copertina di GQ» dissi, alzando gli occhi al cielo. «Ho delle borse sotto gli occhi che sono più grosse della tua.»

«Mai visti bagagli più belli» disse lei, dandomi un buffetto sulla guancia.

Le sorrisi come uno scemo. L’attenzione manifesta da parte di donne attraenti non era male. La nostra rimpatriata era partita col piede giusto. Fino a quel momento era filato tutto liscio.

«Cosa vuoi fare come prima cosa?»

«Brainstorming» risposi, facendo strada verso le scale mobili. «Ma dovremo usare il tuo cervello. Il mio è bollito.»

Conto alla rovescia: Un caso di Michael Bennet, negoziatore NYP
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