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Mentre Berger arrancava zoppicando su per la Settantasettesima, aiutandosi con il bastone che teneva nel bagagliaio della Mercedes, una Bentley Arnage color argento con un adesivo raffigurante la bandiera del Regno Unito sul paraurti si staccò dal marciapiede in corrispondenza della tenda verde bosco.
Berger si chiese se appartenesse a qualche membro della nobiltà terriera. Ai Windsor, magari, in visita da Buckingham Palace? Certo che no. Era Jonathan Brickman del 7°, il più famoso ebreo che aspirasse a diventare WASP dopo Ralph «Lifshitz» Lauren.
Berger stava solo scherzando. In realtà Brickman gli piaceva. Berger aveva fatto parte del comitato incaricato di esaminare la sua domanda di ammissione al condominio. Jonathan possedeva tre credenziali irreprensibili: Princeton, Harvard, Goldman Sachs. Le sue finanze erano da capogiro, persino per gli standard dell’Upper East Side.
Jonathan era anche un tipo simpatico. Affabile, auto-ironico, di bell’aspetto ed elegante nel suo gessato confezionato su misura in Savile Row. L’unica cosa che gli mancava era un annuncio matrimoniale sul Times per la figlia debuttante e poi avrebbe potuto morire in pace e andarsene in Paradiso, o magari a Greenwich.
A Berger piacevano anche le sue aspirazioni elitarie alla Ralph Lauren. Come si poteva non apprezzare quel mondo aristocratico, idealizzato, alla Grande Gatsby, pieno di belle case, bei vestiti, bei mobili e bella gente? Brickman stava solo cercando di diventare più brillante, più felice, più arrivato. In una parola, più. Cosa poteva esserci di più vincente e positivo di quello?
Quando Berger entrò nell’atrio pannellato in legno d’acero a occhio di pernice, vide il portinaio della domenica carico di borsoni Coach in pelle appartenenti a Brickman. Si chiamava Tony. Per lo meno, lui diceva di chiamarsi così, ma probabilmente il suo vero nome era Artan, o Besnik o Zug, vista la sua pronuncia nasale tipicamente croata.
Benvenuto a New York, pensò Berger, con un ghigno, dove gli albanesi vorrebbero essere italiani, gli ebrei vorrebbero essere WASP e il sindaco imperatore a vita.
«Prego, signor Berger» disse Tony, «se mi dà un momento, le chiamo l’ascensore.»
Non scherzava. Per alcuni tra i residenti più spocchiosi del condominio era troppo inelegante anche solo sollevare un dito.
«È già qui, Tony» disse Berger, premendo il pulsante per far aprire le porte. «Considerala una mancia natalizia in anticipo.»
Arrivato all’ultimo piano, l’ascensore pannellato in mogano si aprì su un corridoio con un alto soffitto a cassettoni. L’unica porta, in fondo, conduceva all’attico di Berger.
Alcuni anni prima Brickman aveva fatto segretamente un’offerta assai generosa per acquistarlo. Ma c’erano cose – tipo un appartamento da seicentocinquanta metri quadri su più livelli con vista su Central Park – che neppure i soldi di un miliardario potevano comprare.
Come faceva sempre appena entrato, Berger si fermò ad ammirare i due oggetti nell’ingresso. A sinistra, su una mensola di marmo, era posata una brocca in porcellana di Vienna smaltata in nero, un esemplare pressoché perfetto di porcellana in stile Luigi XV. Sulla destra c’era il Cestino di pane, il capolavoro che Salvador Dalí aveva dipinto poco prima di essere espulso dall’Accademia di San Fernando di Madrid, per aver detto apertamente agli accademici che non avevano l’autorità per giudicarlo.
Davanti a quelle due opere d’arte, Berger sentì la bellezza e la sacralità della sua casa avvolgerlo come un balsamo. Qualcuno avrebbe potuto obiettare che l’appartamento, vecchio e cupo, aveva bisogno di essere rimodernato, ma lui non aveva intenzione di toccare nulla. La patina antica dei corridoi polverosi e pannellati di legno scuro gli dava l’impressione di vivere dentro un antico dipinto.
Quella casa era stata costruita quando esistevano ancora una naturale nobiltà, il rispetto per il rango e il privilegio, la passione e il talento, il desiderio di migliorare. Lì dimoravano fantasmi. Fantasmi di grandi uomini e donne. Grandi ambizioni. Sentiva che lo accoglievano quando tornava a casa.
Decise di fare un bagno. E che bagno, pensò, entrando nella sua stanza preferita. Sotto una volta di quaranta metri quadri in marmo di Lasa c’era una vasca da bagno incassata nel pavimento simile a una piccola piscina, sulla cui destra si trovava un caminetto così grande che vi si sarebbe potuto arrostire un bue allo spiedo. Sulla sinistra un’intera parete a vetri dava su uno dei tanti balconi dell’immenso appartamento.
A Berger piaceva particolarmente usare quella stanza in inverno. Quando sul balcone c’era la neve, apriva le vetrate e accendeva un gran fuoco, poi se ne stava lì coperto dalla schiuma a guardare le luci fuori.
Prima di spogliarsi aprì le vetrate, poi si immerse lentamente nell’acqua bollente.
Galleggiando sulla schiena, si rilassò osservando le luci della città, gialle e bianche, oltre la distesa scura di alberi.
L’indomani avrebbe portato l’azione a «livelli sconosciuti», per dirla con le parole di un insopportabile chef di Food Network. Quel fine settimana non era niente in confronto a ciò che la città avrebbe trovato al suo risveglio.
L’indomani sarebbe stata una giornata infernale.