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La brunetta pallida ed elegante si fece strada tra i tavoli apparecchiati ma deserti della sala illuminata da una luce fioca, accompagnata dall’acciottolio delle stoviglie che giungeva dalla cucina, e salì sul piccolo palcoscenico d’angolo per raggiungere lo Steinway Gran Coda. Un attimo dopo nella sala risuonarono le note di un brano lento, impressionistico, di Debussy, o forse Ravel.
Sul lato opposto della sala tutta pannellata in legno, Berger annuì in segno di approvazione. Poi si infilò con cura il tovagliolo damascato nel colletto della camicia, chiuse gli occhi e inspirò a fondo. Dalla vicina porta a ventola della cucina scie invisibili di profumi appetitosi si impadronirono delle sue narici frementi. Colse l’aroma di una noce di burro che rosolava, l’odore fumoso della carne, il sentore di zuppe fragranti di funghi e porri, il profumo del vino d’annata che decantava. Il suo palato era così sensibile che gli pareva quasi di distinguere i singoli odori che si dissolvevano contro l’epitelio olfattivo, un lembo di tessuto grande quanto un francobollo posto nella parte posteriore delle cavità nasali.
«Adesso, signore?» sussurrò alle sue spalle il maître, un uomo dagli occhi sporgenti in smoking.
Gli accordi erano che solo il maître poteva servirlo o parlargli. Berger non rispondeva mai: esprimeva i propri desideri con una serie di gesti predeterminati con la testa e con la mimica facciale. Aveva persino chiesto che venissero tirate le tende perché la sala da pranzo restasse il più possibile al buio.
Berger attese ancora un momento, trattenendo gli aromi paradisiaci – come un drogato immerso nei fumi di una dose di crack – quindi fece un cenno impercettibile col capo.
Lo schiocco delle dita del maître fu come uno sparo di pistola ai blocchi di partenza, ed entrarono i camerieri in giacca bianca con i piatti. In realtà erano più vassoi che piatti. C’erano montagne di brioche, caviale, quiche, un’anatra arrosto, crème brûlée, ostriche, una salsiera colma di una salsa color zafferano, e altro ancora. Era difficile capire quale pasto stessero servendo.
In realtà erano tutti e tre, una combinazione di colazione, pranzo e cena.
Berger si avventò sul cibo. La prima cosa a portata di mano era una baguette ancora calda. Ne strappò un pezzo con un’esplosione di briciole, la tuffò in una ciotola di burro al tartufo bianco e se l’infilò in bocca. Altre briciole volarono mentre lui masticava con la bocca aperta. Tracannò rumorosamente un bicchiere di cabernet, rovesciandone gran parte. Rivoletti color sangue gli colarono dal mento senza che lui se ne curasse mentre si allungava verso il vassoio di ostriche.
Era consapevole di infrangere ogni regola dell’etichetta. Non c’era dubbio, aveva un debole per il cibo. Quando si trattava di mangiare, si lasciava letteralmente sopraffare dagli odori, dai gusti e, negli ultimi tempi, persino dalla consistenza. Era così ingordo che non usava neppure più le posate e si gettava sul cibo con le mani come un selvaggio, per trarne un piacere ancora maggiore. Il consumo di cibo era diventato qualcosa di indecente, quasi rivoltante, eppure in un certo senso divino.
Come i famosi assassini che ammirava, Berger provava un desiderio così intenso per alcune cose che le altre persone non riuscivano a concepire o avevano paura di esplorare.
Il maître si schiarì la gola.
«Ancora vino, signore?» gli sussurrò all’orecchio.
Berger annuì afferrando l’anatra con le mani e strappando con le unghie la pelle deliziosamente croccante e unta.
Ancora, pensò Berger, riempiendosi la bocca fino a far scoppiare le guance. La mia parola preferita.