13
Berger aveva ancora i capelli bagnati dopo la doccia mentre, alla guida della sua Mercedes blu, filava verso est sulla Cross Bronx Expressway. Vedendo un gabbiano posato sulla ringhiera di un cavalcavia annerito dai gas di scarico, consultò lo schermo del navigatore satellitare sul cruscotto di radica lucente della decappottabile. Neppure mezzogiorno ed era quasi arrivato. Era in anticipo, proprio come piaceva a lui.
Bevve un sorso di caffè nero dal contenitore e lo rimise a posto nell’apposito portabicchiere prima di mettere la freccia e imboccare la rampa per la I-95 North. Qualche minuto più tardi infilò l’uscita undici della corsia nord, puntando verso la zona di Pelham. Proseguì per una decina di minuti prima di fermarsi in un tratto deserto di Baychester Avenue.
Rimase lì seduto a osservare lo squallore del degrado urbano. Ciuffi enormi di erbacce, chiamate palme dei ghetti, avevano colonizzato le fessure del marciapiede di cemento accanto a lui. Oltre queste, in lontananza, c’erano interi isolati di edifici di mattoni, grossi e brutti.
Il gruppo di grattacieli fatiscenti si chiamava Co-op City. Da quanto aveva letto, era il più grande complesso di edilizia popolare degli Stati Uniti. Costruito negli anni Sessanta su un terreno bonificato, sarebbe dovuto essere la soluzione moderna al problema della casa della classe media di New York. Invece, come la maggior parte delle infelici soluzioni moderne, era diventato ben presto esso stesso un problema.
Berger si chiese che aspetto avesse quella landa desolata nel dicembre del 1975. Peggio di adesso, decise, scuotendo la testa.
Basta con quelle sciocchezze, pensò, finendo il caffè. Chiuse gli occhi e sgombrò la mente da ogni pensiero a parte il compito che lo aspettava. Fece alcuni respiri lenti e profondi, come un attore che si prepara a entrare in scena.
Era ancora lì seduto, impegnato nei suoi esercizi di respirazione quando il SUV Denali grigio perla che stava aspettando arrivò e andò a fermarsi una cinquantina di metri più avanti.
«Cosa abbiamo, qui?» chiese Berger tra sé mentre una giovane donna ispanica scendeva dal veicolo. Prese il binocolo posato sul sedile accanto e mise a fuoco. Avrà avuto quindici o sedici anni. Sfoggiava occhiali da sole oversize come quelli che indossa Nicole Richie, trucco pesante, la parte superiore di un bikini scandalosamente ridotto e un paio di calzoncini di jeans troppo succinti.
Berger aprì la busta gialla su cui era posato il binocolo. Diede un’occhiata alla foto della ragazza che si chiamava Aida Morales. Era lei, concluse. Bersaglio confermato.
Il SUV ripartì e la ragazza si avviò lungo il marciapiede diretta verso il punto dove lui aveva parcheggiato. Berger trattenne un sorriso. Non avrebbe potuto immaginare uno scenario migliore, neppure nei suoi sogni.
Controllò velocemente il proprio aspetto nello specchietto retrovisore. Aveva già indossato gli abiti di scena: pantaloni sformati di poliestere marrone e una camicia bianca ancor più cascante, con il collo a punta, abbottonata fino in cima. Per sembrare più grasso aveva infilato sotto la camicia un sacco da lavanderia ripiegato.
Quando la ragazza arrivò al punto in cui avrebbe dovuto svoltare per raggiungere l’ingresso posteriore dell’edificio in cui abitava, Berger prese dal sacchetto di carta accanto a sé la parrucca di ricci neri e la indossò. Si guardò nello specchietto e la sistemò finché non fu soddisfatto.
La ragazza era arrivata a metà del vialetto che portava all’ingresso, e gli rivolgeva la schiena praticamente nuda, quando lui si mise a correre gridando: «Mi scusi, signorina! Scusi! Scusi!»
Lei si fermò. Quando vide la parrucca rimase sorpresa, ma a quel punto era tardi. Lui era già troppo vicino.
Berger estrasse il coltello dal fodero sistemato sulla schiena. Era un coltello militare da sopravvivenza simile a un machete con una lama da ventitré centimetri. Rambo sarebbe stato orgoglioso di lui.
«Se urli ti cavo gli occhi dalla testa» disse, afferrando le spalline del costume da bagno come fossero i fili di una marionetta. La trascinò per la ventina di passi che li separavano dalla piattaforma di carico sul retro dell’edificio ancor più in fretta di quanto avesse previsto, spingendola nello spazio tra il compattatore dell’immondizia, grande quanto un camion, e la parete della rampa. Nel recesso c’era una piccola sedia di plastica. Probabilmente era lì che il custode del palazzo si imboscava, quando non voleva farsi trovare, pensò Berger.
«Ecco, siediti. Mettiti comoda» le disse, facendola sedere con forza.
Invece di chiuderle la bocca con del nastro adesivo come aveva pianificato, decise di procedere e cominciò a pugnalarla. La puzza di spazzatura e il ronzio delle mosche erano insopportabili.
Il primo, veloce affondo fu alla spalla destra. Lei urlò sotto la mano che lui le teneva premuta sulla bocca e alzò gli occhi verso le finestre e i balconi sul retro dell’edificio, in cerca di aiuto. Ma trovò solo condizionatori che ronzavano e gocciolavano, e finestre deserte. Erano soli.
Lei urlò altre due volte mentre Berger estraeva il coltello con un leggero strattone e poi lo conficcava nella spalla sinistra. La ragazza cominciò a piangere in silenzio mentre il sangue gocciolava sul cemento lurido.
«Visto?» disse lui, facendole una carezza sulla guancia con la mano libera insanguinata. «Non è stato così male, vero? Ho quasi finito, piccola. Tra un minuto ce ne andremo entrambi da questo buco puzzolente. Te la stai cavando benissimo.»