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L’Alexander Hotel, sulla Quarantaquattresima vicino alla Madison, aveva poco personale, era oltraggiosamente caro e oltremodo squallido: tutte le pareti sporche e scrostate, gli asciugamani ingrigiti, e la puzza di marijuana e di urina che centosettantacinque dollari a notte possono comprare.
Seduto a gambe incrociate sulla scrivania che aveva spostato davanti alla finestra della camera all’ultimo piano, Berger fece una lenta panoramica con la macchina fotografica sulle colonne e le trabeazioni della biblioteca diciassette piani più in basso.
Il superzoom Nikkor da undicimila dollari montato sulla macchina digitale full frame permetteva di distinguere i volti delle persone fino a un chilometro e mezzo di distanza. A un isolato e mezzo, con quell’ingrandimento incredibilmente vivido, Berger riusciva a vedere persino le gocce di sudore sui volti nervosi dei primi poliziotti accorsi sulla scena.
Posati sulla scrivania accanto a lui c’erano un laptop, un cronometro digitale e un bloc-notes pieno di appunti che aveva preso nelle ultime ore, ordinatamente stenografati. Procedure di evacuazione. Tempi di risposta. Aveva lasciato la finestra aperta così da poter sentire le sirene e immergersi nella confusione della strada.
Stava meticolosamente fotografando l’attrezzatura dentro il furgone della squadra Artificieri attraverso lo sportello posteriore aperto, quando qualcuno bussò alla porta. Spaventato, Berger saltò di scatto giù dalla scrivania. Passando davanti al letto afferrò un oggetto dall’aspetto futuristico, un fucile d’assalto austriaco Steyr AUG silenziato, già con il colpo in canna e pronto a sparare tutti i suoi trenta proiettili 5,56 NATO.
«Sì?» disse, imbracciandolo.
«Servizio in camera. Il caffè che ha ordinato, signore» disse una voce dietro la porta.
Non era possibile che lo avessero trovato così in fretta! Che qualcuno lo avesse visto da un’altra finestra? Cosa diavolo stava succedendo? Puntò il fucile al centro della porta.
«Io non ho ordinato nulla» ribatté Berger.
«No?» disse la voce. Seguì una pausa. Prolungata. Nella sua mente Berger vide un poliziotto della SWAT con un passamontagna intento ad applicare una carica esplosiva alla porta. Guardò la canna del fucile, i muscoli che guizzavano sugli avambracci forti, il dito sospeso sul grilletto, il cuore che aveva smesso di battere. In attesa.
«Oh, mer... coledì» disse alla fine il cameriere. «Ho sbagliato. È un undici, non un diciassette. Mi scusi tanto, signore. Non riesco neppure a leggere la mia scrittura. Mi scuso per averla disturbata.»
E non puoi neppure immaginare quanto, pensò Berger, massaggiandosi la sella del naso per allentare la tensione. Attese finché non sentì la porta dell’ascensore aprirsi e richiudersi in fondo al corridoio e soltanto allora abbassò l’arma.
Quando tornò alla sua postazione e riprese in mano il teleobiettivo, vide che c’era un uomo che parlava con il capo degli artificieri sotto il colonnato della biblioteca. Dopo aver scattato un primo piano, sorrise mentre esaminava il volto sul display.
Era lui. Finalmente. Il detective Michael Bennett. Era arrivata la polizia di New York.
La soddisfazione che Berger provò fu quasi pari al compiacimento che avvertiva quando riusciva a prevedere una contromossa in una partita a scacchi.
Sorrise osservando Bennett attraverso l’obiettivo. Sapeva tutto di lui, della sua brillante carriera nel Dipartimento di polizia di New York, della sua famiglia degna di comparire in una trasmissione di Oprah Winfrey. Berger lanciò un’occhiata al fucile posato sul letto. Da quella distanza avrebbe potuto centrare il poliziotto con una rosata stretta. Avrebbe potuto farlo a pezzi e spiaccicarlo sulle colonne e i gradini di marmo.
Sarebbe stato perfetto per smuovere le acque, pensò Berger, distogliendo lo sguardo dall’arma. Ogni cosa al momento opportuno. Attieniti al piano. Pensa alla missione.
«Restate con noi, amici» disse, concedendosi un breve sorriso mentre scattava un’altra foto ai due poliziotti ignari. «C’è molto altro ancora. In onore di Lawrence.»