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Un tizio grande, grosso e calvo con grandi baffi neri e una tuta tattica blu mi venne incontro sotto il grande portico che era il simbolo dell’edificio. Con quei baffoni, Paul Cell era incredibilmente simile al tizio raffigurato sul logo della squadra Artificieri, un tipo dall’aria intrepida alla Barone Rosso che cavalcava una bomba davanti allo skyline di Manhattan.

«Abbiamo fatto annusare le auto parcheggiate e tutto l’arredo urbano e sono certo che non vi siano altri ordigni» disse Cell. «Pensaci. Si attirano i primi poliziotti con una bomba finta. Io farei così. Guarda tutte quelle finestre. In questo momento, dietro una di esse potrebbe esserci un jihadista che ci osserva, col dito sul pulsante, impaziente di sentire l’epico botto e vedere il lampo di luce divina.»

«Cristo, Paul, ti prego» dissi, portandomi una mano allo stomaco. «Stamattina non ho preso l’antiacido.»

Cell e i suoi uomini erano i migliori artificieri al mondo, veloci, efficienti e affiatati come una squadra di hockey, o forse ancora di più, visto che la loro panca puniti era una bara. I poliziotti sono tutti un po’ pazzi, ma questi più degli altri.

«D’accordo, d’accordo. Sei pronto a vedere il pezzo forte?» disse Cell, invitandomi a entrare nella biblioteca con uno svolazzo della mano.

«No, ma andiamo comunque» dissi, inspirando a fondo.

Nell’attraversare il gigantesco ingresso di marmo che portava a una scalinata in pietra, passammo davanti ad altri cinque o sei poliziotti dall’aria nervosa. Al terzo piano, nella rotonda pannellata di legno, altri artificieri stavano aiutando i colleghi a togliersi tute in kevlar simili a quelle degli astronauti. Un altro stava riponendo il robot telecomandato e l’attrezzatura a raggi X.

«Non avremo bisogno di quella roba?» chiesi.

Cell scosse il capo.

«Abbiamo già disattivato l’ordigno. O meglio, non ce n’è stato bisogno. Non era fatto per esplodere. Vieni, ti faccio vedere.»

Lo seguii con riluttanza nella monumentale sala di lettura. Ricordava una sala da ballo ed era ancora più impressionante dell’atrio con le sue grandi finestre ad arco, i lampadari e la distesa di scaffali pieni zeppi di libri. L’ultimo tavolo all’estremità nord della grande sala era nascosto sotto una spessa coperta arancione in kevlar per il contenimento delle esplosioni. Quando Cell la sollevò, sentii il battito accelerare e le mie mani stringersi involontariamente a pugno.

Al centro del tavolo c’era quello che sembrava un laptop bianco. Poi, dove si sarebbe dovuta trovare la tastiera, vidi dei chiodi, dei fili e dell’esplosivo plastico simile all’argilla, e rabbrividii.

Sullo schermo lampeggiava una scritta agghiacciante e del tutto superflua – SONO UNA BOMBA – sotto la quale scorreva il messaggio: QUESTA NON ERA FATTA PER ESPLODERE, MA LA PROSSIMA LO SARÀ. LO GIURO SUGLI OCCHI DEL POVERO LAWRENCE.

«Questo tizio ha classe» disse Cell, osservando la bomba con espressione quasi ammirata. «Fondamentalmente è come una mina Claymore. Due chili di plastico dietro tutti quei chiodi, una versione gigante di una cartuccia a pallettoni. Il tutto collegato a un ingegnoso innesco al mercurio attivato dal movimento. È il secondo che mi capita di vedere. Ha persino incollato il computer al tavolo in modo che chi lo trovava fosse costretto ad aprirlo e a rovesciare il mercurio.»

«Molto... interattivo» dissi, scuotendo la testa.

In assoluto, la parte che meno mi piaceva del messaggio era il minaccioso riferimento a una prossima bomba. Era quello che temevo. Pareva che qualcuno stesse sfidando la polizia di New York. E, dal momento che ero in vacanza, ero disposto a prendere in considerazione soltanto una sfida a beach volley.

«E ha pure la mano leggera» disse Cell. «Ha usato una saldatrice per collegarlo alla batteria. Deve essere esperto anche di computer, perché, pur mancando il disco rigido, è riuscito a programmare questo messaggio d’auguri tramite il sistema operativo interno del computer.»

«Come mai non è esplosa?» chiesi.

«Ha tagliato uno dei cavi di alimentazione e ha isolato le due estremità in modo che non esplodesse, grazie a Dio. L’addetto alla sicurezza dice che la sala era affollatissima, come ogni sabato. Avrebbe potuto facilmente uccidere almeno una decina di persone, Mike, se non una ventina. L’onda d’urto provocata da una simile quantità di plastico sarebbe sufficiente a far crollare una casa.»

Restammo a fissare in silenzio il messaggio che continuava a scorrere sullo schermo.

«Sembra quasi una poesia, non trovi?» osservò Cell.

«Già» risposi, tirando fuori il BlackBerry e premendo il tasto di composizione rapida del numero del mio capo. «È una metrica che conosco. Si chiama pentametro giambico dello psicopatico.»

«Dimmi cosa abbiamo, Mike» disse Miriam un attimo dopo.

«Miriam» dissi, fissando le parole lampeggianti SONO UNA BOMBA. «Abbiamo un problema.»

Conto alla rovescia: Un caso di Michael Bennet, negoziatore NYP
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