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Nella camera soffocante fui investito da una zaffata di sudore e mi si chiuse la gola. Cominciai a tossire e per poco non vomitai.
Chiunque fosse quell’uomo schifosamente obeso, di sicuro non era il sospettato di cui avevano parlato i testimoni, né l’uomo dell’identikit e del video di sorveglianza.
Avevamo preso un abbaglio, pensai, abbassando la pistola.
«Dio, qualcuno vuole prendere un lenzuolo?» disse Emily, rimettendo l’arma di servizio nella fondina e distogliendo lo sguardo.
«E una latta di disinfettante» disse Wong, coprendosi naso e bocca mentre finiva di ammanettarlo.
Con riluttanza entrai nella camera, strappai via un lenzuolo lurido dal letto e coprii la schiena dell’uomo. Bastava appena. L’uomo sarà stato almeno duecentocinquanta chili. Forse anche trecento. L’agente dell’Unità d’emergenza fu costretto a usare due paia di manette per bloccargli i polsi.
Mi inginocchiai accanto a lui.
«Lawrence Berger?» chiesi.
«Sì» disse lui, voltando la grossa testa nella mia direzione. «Oh, uau! Michael Bennett! Non sapevo che lei fosse qui. Mio Dio, è così surreale!»
Emily e io ci scambiammo un’occhiata perplessa.
«Ci conosciamo?» dissi.
«Lei ha tenuto una conferenza sulle indagini per omicidio all’assemblea generale del John Jay nel 1993... giusto?» disse Berger, guardandomi negli occhi. «C’era anche sua moglie. Bella donna. Alta. Mi dica, come sta? Oh, mi perdoni! Cosa sto dicendo? L’articolo sul New York Magazine diceva che era morta. Be’, adesso è in un posto migliore. Le mie più sentite condoglianze.»
Prima che potessi dargli un pugno in faccia, Hobart lo strattonò con violenza tirandolo per le manette.
«Ahhh! I miei polsi!» urlò Berger, con le lacrime agli occhi. «Ah! Fermo! Mi fa male! Cosa sta cercando di fare? Vuole rompermi un braccio? Gliel’ho detto che ho dei problemi alla schiena.»
«Perché, ti sembro un chiropratico, ciccione?» gli disse Hobart all’orecchio. «Sta’ attento a quello che dici se non vuoi che ti chiuda la bocca con il mio scarponcino da combattimento.»
Berger annuì e si voltò lentamente verso Emily.
«Non mi dica che lei è l’agente Parker. Fate di nuovo squadra insieme? Mi sento onorato. Bel fisico. Pilates?»
«Ora basta» disse Hobart, dando un altro violento strattone alle manette.
Invece di urlare di nuovo, Berger fece qualcosa di sorprendente e al tempo stesso spaventoso.
Si mise a ridere.
«E questo lo chiami dolore?» disse a Hobart sorridendogli. «Ho pagato molto più di quanto tu guadagni in una settimana per molto, molto peggio, zuccherino. Cos’è che volevi fare con quel tuo scarponcino?»
La faccenda si stava mettendo male. Era sempre più strana. Hobart mollò la catena delle manette come se scottasse e si pulì le mani sui pantaloni.
«Dov’eravamo rimasti?» disse Berger, girandosi di nuovo verso di me. Adesso la sua voce aveva un tono stranamente euforico.
«Chi diavolo è quest’uomo, Berger?» gli chiesi, mostrandogli l’identikit e la foto scattata dal sistema di sorveglianza di FAO Schwarz.
Berger li guardò strizzando gli occhi.
«Direi che potrebbe esserci una qualche somiglianza con Carl» rispose.
«Carl?» fece Emily. «Chi cazzo è Carl?»
«Carl Apt. Il mio amico» disse Berger. «Un mio intimo amico e compagno. So cosa state pensando. Compagno da lungo tempo uguale amante gay. E invece no. Non che io non ci abbia provato, ma Carl è tutto d’un pezzo. Puro come la neve, e due volte più freddo.»
«Carl lavora per lei?» dissi, cercando di mettere insieme i pezzi.
«In un certo senso» rispose Berger. «È complicato.»
«Io direi di imbavagliare questo stronzo» propose Hobart.
«Dov’è? Dov’è Carl adesso?» chiesi.
«Dov’è di solito, sciocchino» rispose il ciccione, alzando gli occhi al soffitto. «È di sopra a farsi un bagno.»