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Uno o due giorni dopo l’Undici settembre, sulla prima pagina del Daily News campeggiava la drammatica fotografia di un camion dei pompieri che attraversava il ponte di Brooklyn, diretto verso le Twin Towers in fiamme. Era un’immagine incredibile, anche prima di venire a sapere che tutti i pompieri a bordo di quel veicolo, l’autopompa 118, avevano perso la vita nel crollo delle torri.
Mentre ripercorrevo quella stessa strada a bordo del mio Suburban scassato, passando sotto le famose arcate del ponte, diretto al mio appuntamento con una bomba sulla Quarantaduesima, non riuscivo a smettere di pensare a quell’immagine.
Evitai la FDR Drive, congestionata dal traffico, e presi le strade laterali, la St. James fino alla Bowery e poi Park Avenue South. Mezzo isolato a ovest della Grand Central Terminal, la polizia aveva sistemato dei cavalletti di legno per isolare la Quarantaduesima in entrambe le direzioni. Dietro il nastro giallo, una folla di turisti asiatici ed europei se ne stava in prima fila, con le macchine fotografiche alzate, pronta a immortalare l’azione.
Varcato il perimetro esterno, dopo aver mostrato il distintivo, parcheggiai dietro una volante del Diciassettesimo Distretto, mezzo isolato a sud della Quarantaduesima. Stavo scendendo quando notai una Crown Victoria azzurra nuova di zecca e, seduti sul cofano, una coppia di agenti alti e ben vestiti che sfoggiavano polo della JTTF e parlavano al cellulare.
Dubitavo che fossero lì per giocare a polo. Chiamare i federali della Joint Terrorism Task Force al minimo sospetto di terrorismo era procedura standard nella nostra metropoli, ancora più nervosa dopo l’Undici settembre. Quando passai davanti a loro, i federali non parvero troppo colpiti da me né dal mio distintivo dorato. Lo sapevo che avrei fatto meglio a indossare una giacca sopra la camicia hawaiana.
Arrivato all’angolo opposto alla biblioteca, vidi altre transenne più giù lungo la Quarantaduesima, all’altezza della Sesta Avenue, e tre isolati in entrambe le direzioni su e giù per la Quinta Avenue. Il silenzio e l’assenza di traffico in quello che era di solito uno degli incroci più congestionati della terra erano decisamente spettrali.
«¿Sarge, qué pasa?» dissi, mostrando il mio gioiello all’agente ispanica in uniforme, di guardia al cancello di alluminio del perimetro interno.
«Pare che qualche balordo abbia dimenticato i libri scaduti e al loro posto abbia riconsegnato alla biblioteca un finto ordigno esplosivo» rispose lei, mentre scrivevo il mio nome sul registro della scena del crimine. «Abbiamo evacuato la zona, Bryant Park compreso. Gli artificieri sono dentro. La Midtown North ha portato un autobus carico di testimoni e dipendenti della biblioteca al distretto, ma ho sentito dire che non promette bene.»
Tra le colonne e le fontane della biblioteca, passai davanti ad agenti in uniforme del Diciassettesimo Distretto e della Task Force di Midtown North. Avevano l’aria nervosa e alcuni erano armati di aggeggi che sembravano pistole radar, ma che erano in realtà rilevatori di radiazioni. Accanto al marciapiede era parcheggiato un furgone anonimo attrezzato con Dio solo sa quali apparecchiature di rilevazione.
All’ingresso principale della biblioteca, un tizio coi capelli rossi e una tuta bianca che lo faceva assomigliare a un gigantesco marshmallow, teneva al guinzaglio un labrador biondo. Non era un cane guida per ciechi, lo sapevo, ma un cane addestrato alla ricerca di esplosivi. Adoravo i cani, ma non sulle scene del crimine. Un cane sulla scena di un crimine significa o bombe o cadaveri, e io non ero particolarmente eccitato all’idea di trovare né le une né gli altri.
«Non promette bene» sembrava essere il leitmotiv di quella serata di mezza estate, pensai, salendo la scalinata tra i due giganteschi leoni di pietra.