63

Dopo aver guidato Emily per le strade di Manhattan, le dissi di fermarsi sotto un’insegna verde al neon a forma di arpa. Era il Dublin House sulla Settantanovesima, il pub irlandese in cui avevo festeggiato il mio ventunesimo compleanno.

«Qui riesci a pensare meglio?» disse.

«Cosa intendi dire?» risposi, facendo strada all’interno. «La biblioteca è chiusa. E poi, non hai sentito? La gente ci piazza delle bombe.»

Il pub senza pretese non era cambiato per niente. Andai al jukebox e misi Black Velvet Band, la colonna sonora della mia infanzia.

Mio padre, Tom Bennett, detective del Dipartimento di polizia di New York, qualche volta mi portava lì al sabato quando mia madre andava a fare visita alle sue sorelle a Brooklyn. Mi riforniva di Cola-Cola e quarti di dollaro per il flipper mentre lui beveva con i suoi amici e colleghi poliziotti irlandesi. Certe volte lo chiamavano Tony Bennett per la sua abitudine di mettersi a cantare quando aveva alzato un po’ il gomito.

I miei erano morti in un incidente stradale mentre andavano nel loro appartamentino in Florida una settimana dopo la mia laurea. Erano sepolti insieme al Calvary Cemetery nel Queens, ma era lì, in quel pub, che andavo quando volevo far loro una visita.

Qualcosa, forse la lite con i Flaherty, mi aveva riportato alla mente la mia malinconica infanzia irlandese. E le mie attuali disavventure professionali non contribuivano di certo a rallegrarmi. Potevo capire che la stampa mi stesse addosso, era il suo lavoro. Ma lo schiaffo ricevuto dal commissario era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.

O forse era solo una crisi di mezza età. Era bastata una serata da solo nella grande città a gettarmi nello sconforto. Decisi di non opporre resistenza. Proseguii verso il bancone del bar e ordinai due Jameson e due pinte di Guinness.

«Fammi indovinare. Questo è il giorno di San Patrizio che cade in luglio» disse Emily.

Le strizzai l’occhio, versai il Jameson nel bicchiere della birra e la tracannai finché l’unica cosa rimasta fu la schiuma sul mio labbro superiore.

«Sto solo cercando di svegliarmi» le dissi, passandomi il dorso della mano sulla bocca assetata. «Cosa aspetti?»

Lei alzò gli occhi al soffitto, poi bevve il tutto a velocità sorprendente.

«Hai una cosa sul labbro» le dissi prima di baciarla.

Non so chi dei due rimase più scioccato per la mia impertinenza. Come se non bastasse, lei cominciò a rispondere al mio bacio, ma io mi ritrassi all’improvviso.

«Okay» disse, guardandomi con aria strana. «Ti senti bene, Mike?»

Mi strinsi nelle spalle. Era una buona domanda. Purtroppo, io non avevo una buona risposta. Come per il resto della città, quella per me era un’estate strana.

«Forse dovremmo chiuderla qui, per stasera» dissi, mollando due biglietti da venti dollari sul banco e dirigendomi verso la porta.

Emily mi seguì fuori e tornammo verso casa mia in silenzio. Quando feci per aprire la portiera, fu lei a sporgersi verso di me per baciarmi. Seguì un torrido momento di esitazione in cui pensai che ci saremmo strappati i vestiti di dosso, ma poi lei tirò via la lingua dalla mia bocca e mi spinse verso la portiera.

Mentre mi toglievo il rossetto dalla faccia mi voltai verso il mio palazzo dove Bert, il portiere, stava osservando avidamente la scena. Proprio quella sera il figlio di buona donna era sulla porta.

«Caldo e freddo, freddo e caldo» disse lei. «Non so, ma c’è qualcosa che non mi convince, Mike. Non so cosa sia, ma mi sembra che non ci stiamo rendendo giustizia a vicenda. Faresti meglio a scendere da questa auto prima che io faccia qualcosa di cui potremmo pentirci.»

Annuii. Capivo cosa voleva dire. Eravamo amici, per non parlare del fatto che eravamo colleghi molto affiatati. Se ci fossimo spinti oltre, avremmo messo a repentaglio tutto questo. O comunque qualcosa, giusto?

Non sapevo cosa rispondere, così mi limitai a dire: «Okay» e aprii la portiera.

Fu in quell’istante, lì, sulla strada, con le luci dei freni dell’auto di Emily che si spegnevano, che capii. Giustizia. Finalmente nel mio cervello si accese una sinapsi, e il collegamento che stavamo cercando prese forma nella mia mente come il tracciato di una costellazione da un ammasso disordinato di stelle.

«Emily, aspetta!» gridai, mentre lei ripartiva.

Non si fermò. Fui costretto a correrle dietro. Se non fosse stato per il semaforo rosso, non l’avrei mai raggiunta.

«Ma sei impazzito?» disse lei quando spalancai la portiera.

«Ascolta. Ho capito. Avevi ragione. Sono le dinamiche familiari» dissi, mentre il semaforo diventava verde.

«Cosa?» fece lei, mentre un tassista pestava sul clacson dietro di noi.

«Cosa?» ripeté dopo aver accostato al marciapiede.

«Sono le madri» dissi, sporgendomi verso di lei per afferrare i fogli delle interviste su cui avevamo lavorato. Ne tirai fuori due e scorsi il testo con un dito.

«Guarda qui. Le madri. La signora Morales e la madre di Angela Cavuto, Alicia, hanno studiato nella stessa scuola. Hanno frequentato tutte e due il John Jay College of Criminal Justice.»

«Oh, merda!» esclamò Emily. «Aspetta.»

Frugò tra gli altri fogli.

«Ecco. È scritto qui! Anche Stephanie Brill, la ragazza morta nell’esplosione dell’edicola alla Grand Central, aveva studiato al John Jay. La sua matrigna ha detto che aveva frequentato per un po’, ma poi si era ritirata. È una scuola pubblica o qualcosa del genere?»

«Sì. E pensaci: una scuola dove si studia giustizia penale... è esattamente il posto in cui si potrebbe trovare una persona ossessionata dal crimine! È questo, Emily. Chiamerò la squadra e Miriam. Domani mattina, come prima cosa, dobbiamo convocare le madri.»

Conto alla rovescia: Un caso di Michael Bennet, negoziatore NYP
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