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Carl Apt se ne stava appeso nel pozzo dell’ascensore principale con i capelli ancora gocciolanti.
Da quaranta minuti ormai se ne stava aggrappato a una trave verticale usando una tecnica alpinistica nota come «arrampicata in opposizione». Aggrappato al metallo freddo con le dita di entrambe le mani e le piante dei piedi, era appeso di fianco con la parte laterale del sedere e delle reni schiacciata contro la parete di mattoni del pozzo dell’ascensore.
Un attimo dopo che la polizia aveva fatto saltare la porta d’ingresso, lui aveva afferrato al volo la sacca con il kit d’emergenza, ma era tutto nudo. Dentro la sacca di nylon però c’era tutto ciò che gli serviva: una pistola, bancomat e carte di credito, cinquecento compresse di Percocet, un cambio d’abiti. La sacca penzolava, come lui del resto, mossa dal vento diciotto piani sopra la fossa caldissima e buia dell’ascensore.
Ogni tanto era costretto a cambiare la presa di piedi e mani per evitare i crampi, ma non era preoccupato. Sapeva come affrontare il dolore ed era ancora ben lontano dalla sua soglia di sopportazione.
Adesso aveva bisogno di un nascondiglio. Un posto in cui rifugiarsi finché le acque si fossero calmate abbastanza da permettergli di spostarsi di nuovo. Per lo meno finché non avesse fatto buio. Conosceva il posto giusto e vi sarebbe arrivato di lì a qualche minuto. Nonostante la svolta improvvisa degli eventi, era calmissimo. Era da un anno che pianificava tutto, compreso il minimo imprevisto.
Una scintilla azzurrina sfrigolò sopra la sua testa mentre il motore dell’ascensore si azionava con un colpo secco e i cavi davanti a lui iniziavano a muoversi.
Un minuto dopo, il tetto dell’ascensore cominciò ad avvicinarsi. Si fermò tre metri più in basso e sentì le radio della polizia gracchiare mentre i poliziotti uscivano dalla cabina.
Era la sua occasione. Scese ondeggiando lungo la trave e arrivò sul tetto dell’ascensore silenzioso come un gatto. I suoi piedi si posarono sul grasso dei cavi. L’ascensore vuoto cominciò a scendere.
Adesso veniva la parte più difficile, pensò, mentre i piani diminuivano.
Quando l’ascensore arrivò al secondo, Carl si alzò in piedi e scese dal tetto della cabina in movimento, salendo sulla soglia della porta del primo piano. Attese che l’ascensore si aprisse sull’atrio prima di far scattare la leva di sblocco sopra la porta del primo piano e uscire sul pianerottolo. Mentre la porta si richiudeva, Carl avvolse la maniglia della sacca attorno alla leva di sblocco sul lato interno della porta.
Attese sul pianerottolo ingombro di mobili del primo piano, fissando le due porte degli appartamenti A e B. Ora veniva la parte difficile.
Avrebbe dovuto aspettare che l’ascensore tornasse su per aprire la porta e infilarsi sotto la cabina. Era l’unico modo per arrivare nel seminterrato senza farsi scoprire. Era lì che si trovava il suo nascondiglio. La sua vita dipendeva dal riuscire o meno a raggiungere il seminterrato.
Guardò le porte degli appartamenti, la mano stretta intorno all’impugnatura della semiautomatica Smith & Wesson nove millimetri silenziata dentro la sacca. Se fosse uscito qualcuno, lui l’avrebbe ucciso. E anche nel caso che la polizia fosse arrivata al primo piano, sarebbe stato costretto a vedersela lì. Da quella distanza ravvicinata avrebbe sparato al volto, poi avrebbe preso un fucile d’assalto della polizia, sarebbe sceso nell’atrio e si sarebbe aperto la strada sparando, oppure sarebbe morto nel tentativo di fuggire.
Sorrise. Non era affatto un piano malvagio, anzi, era un bel modo per andarsene. Lui era un guerriero e, come tutti i guerrieri, quello che desiderava in definitiva era una buona morte.
In un modo o nell’altro. Ormai dipendeva tutto dal fato. Lui non aveva più alcun controllo.