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Un’ora più tardi ero fuori, nella veranda sul retro della casa dei miei avi, davanti al barbecue, anche quello dei miei avi, che ci davo dentro a più non posso. Würstel in caldo sulla griglia superiore. Fette di formaggio che aspettavano di essere adagiate sulla fila di hamburger macinati di fresco che sfrigolavano sulla griglia inferiore. Fumo azzurrino in faccia, una bottiglia di Spaten gelata in mano. Eravamo così vicini all’oceano che sentivo il frangersi ritmico delle onde sulla sabbia compatta.
Se mi fossi appoggiato con la schiena alla ringhiera del portico e avessi guardato a sinistra, sarei riuscito a vedere l’Atlantico, due isolati più avanti verso est. Se mi fossi voltato a destra, sull’altro lato di Jamaica Bay, avrei potuto vedere il sole che iniziava la sua discesa verso lo skyline di Manhattan, dove lavoravo. Era da una settimana che non dovevo guardare in quella direzione e pregavo che continuasse così fino al primo di agosto.
Non c’era dubbio. Il mio mondo era un bel posto per cui valeva la pena di battersi. Magari non nel parcheggio di una chiesa, ma tant’è.
Sentii qualcosa sulla XM Radio alle mie spalle. Era la canzone Everybody Wants to Rule the World dei Tears for Fears. Mi venne da ridere, ripensando a quando l’avevo ballata con Maeve al nostro matrimonio. Alzai il volume a palla. Non c’era da stupirsi che pensassi con nostalgia al 1985. Niente internet. Capelli a ciocche induriti dal gel. «Weird Al» Yankovic. Film di John Hughes. Se inventano una macchina del tempo a forma di Jacuzzi, giuro che torno indietro.
«Tocca a te, padre» sentii Trent dire alle mie spalle.
Dentro, al tavolo di cucina, era in corso un’accesa partita di poker. Montagne di caramelle avevano cambiato mano più volte, quella sera.
«D’accordo, dammi una carta» disse Seamus.
«Ma nonno, non stiamo giocando a blackjack» protestò Fiona con una risata.
«A pesca?» azzardò Seamus.
Ripensai a ciò che il mio nuovo giovane amico Flaherty aveva detto a proposito della mia famiglia multietnica. Strano come le persone si sbagliassero. La mia famiglia non era un esperimento sociale stile Hollywood. La nostra banda era frutto dei miei casi di poliziotto e del lavoro della mia defunta moglie come infermiera al pronto soccorso del Jacobi Medical Center nel Bronx. I nostri figli erano i sopravvissuti delle situazioni più orribili che la città di New York potesse offrire. Tossicodipendenza, povertà, suicidio. Sia Maeve che io venivamo da famiglie numerose, ma non eravamo riusciti ad avere figli. E così li avevamo adottati, uno dopo l’altro. Semplice. E folle.
Mi voltai quando Trent aprì la porta scorrevole della veranda.
Mi stavo preparando a un discorso padre-figlio sugli stronzi razzisti quando vidi che aveva in mano qualcosa. Era il cellulare di servizio e stava vibrando. Lanciai un’occhiata terrorizzata allo skyline di Manhattan. Lo sapevo. Era andato tutto troppo liscio per troppo tempo.
«Rispondi» gli dissi, seccato.
«Bennett» disse Trent facendo una voce profonda. «Dammi la scena del crimine.»
«Spiritoso» dissi, strappandogli il telefono di mano.
«Non ero io» dissi, abbassando la radio. «E la scena del crimine puoi anche tenertela.»
«Vorrei tanto poterlo fare» rispose il mio nuovo capo, l’ispettore Miriam Schwartz.
Chiusi gli occhi. Idiota! Lo sapevo che dovevo andare al Grand Canyon.
«Sono in vacanza» protestai.
«Anch’io, ma questa è una faccenda grossa, Mike. Roba da Sicurezza nazionale. Mi ha appena chiamato il Comando del Distretto di Manhattan. Qualcuno ha piazzato una bomba nella sede centrale della New York Public Library.»
Ci mancò poco che mollassi il telefono, mentre un brivido gelido mi correva lungo la schiena e dietro le gambe. Sentii un tuffo allo stomaco e mi passarono davanti agli occhi i ricordi dell’operazione giù nel cantiere del World Trade Center dopo l’Undici settembre. Paura, rammarico, frustrazione, la puzza di metallo bruciato sui vestiti. Accidenti, pensai. Non di nuovo, ti prego.
«Una bomba?» dissi, lentamente. «È innescata?»
«No, grazie al cielo. Ma è ’molto sofisticata’, per citare Paul Cell della squadra Artificieri. C’era un biglietto.»
«Odio quei biglietti del cazzo. Era un biglietto di scuse?» dissi.
«Purtroppo no, Mike» rispose Miriam. «Diceva: ’Questa non doveva esplodere, ma la prossima sì’. O qualcosa del genere. Il commissario vuole che se ne occupi la squadra Grandi Crimini. Mi serve il mio uomo migliore. Sei tu, Mickey.»
«Mickey è appena uscito» dissi, con un sospiro. «Parla Paperino. Desidera lasciargli un messaggio?»
«Dipendono da te, Mike» incalzò il mio capo.
«Già, dipendono tutti da me» ribattei, lasciando cadere la spatola mentre gli hamburger bruciavano.