58
Mollai la scatola con i dati delle vittime all’ingresso e per un attimo rimasi lì, in ascolto, nella casa che odorava di chiuso. In confronto al trambusto che regnava di solito nel nostro caotico appartamento, il silenzio era un’esperienza quasi unica.
Esaminando la posta, trovai un tubo di cartone e sorrisi nel vedere il nome del mittente. Andai nella camera da letto dei ragazzi più grandi e appesi il poster che ritraeva Mariano Rivera in azione e che avevo comprato per il compleanno di mio figlio Brian. Sarebbe impazzito quando lo avesse visto.
«Stasera siamo solo noi due, Mo» dissi al poster a grandezza naturale, uscendo dalla stanza. «Una serata tranquilla tra vecchietti.»
Passai ad accendere al massimo tutti i condizionatori a finestra. Rientrando in soggiorno mi chinai per raccogliere da terra quello che sembrava un ferro di cavallo scozzese. Era uno dei cerchietti per i capelli della scuola cattolica delle ragazze. Lo rigirai tra le dita prima di posarlo su un tavolino invaso da blocchetti di Jenga e libri della serie Diario di una schiappa.
Mi buttai sul divano sfondato e riflettei sulla follia dei miei ultimi quindici anni di vita familiare. Era un ammasso confuso di tricicli, filmini, tavoli di cucina coperti di Cheerios, tante lacrime ma molte più risate. Avevamo modificato l’appartamento, ricavando due camere da letto in più rispetto alle tre originali, usando la sala da pranzo elegante e metà del grande salotto. In effetti, Maeve e io rinunciammo a tutto quanto c’era di formale in quell’appartamento sull’esclusiva West End Avenue con l’arrivo, uno dopo l’altro, dei componenti della nostra incredibile famiglia in continua crescita.
La cosa strana è che io non avrei mai voluto che fosse diversamente.
Come fossi riuscito a portare i miei figli fino a quel punto, continuando a combattere i cattivi e a mantenere un minimo di sanità mentale, non lo saprò mai. Anzi, a dire il vero, lo sapevo. I loro nomi erano Maeve, Mary Catherine e, per quanto odiassi ammetterlo, Seamus.
Tornato in camera da letto, ascoltai i messaggi sulla segreteria telefonica. Il più recente era in assoluto il più curioso.
«Sì, ehm... pronto? Mary... Mary Catherine?» disse un uomo con un affascinante accento inglese. «Sono Jeremy Griffith. Io... ehm... ho tenuto una lezione alla tua classe... Spero... ehm... spero che non ti dispiaccia se mi sono fatto dare il tuo numero dall’insegnante. Solitamente sono cose che non faccio, ma io... ehm... sono a questa orribile festa e non ho smesso un istante di pensare a quegli illuminanti collegamenti che hai fatto tra il barocco tedesco e il classicismo nordico. A essere sincero, non ricordo l’ultima volta in cui ho incontrato qualcuno che sapesse chi era Ivar Tengbom, e tanto meno che ammettesse di essere un suo ammiratore. A ogni modo, fai qualcosa questo fine settimana? Io ho un’altra cena con gente del MOMA venerdì e pensavo che... ehm... magari poteva farti piacere accompagnarmi. Ecco, l’ho detto. Se ce la fai, è magnifico. Altrimenti, be’, un vero peccato per me e per Ivar. Ti lascio il mio numero.»
«Mi dispiace, amico» dissi, cancellando all’istante senza pietà lo spasimante di Mary Catherine. «Pare proprio che dovrai andarci da solo.»
Era sbagliato? mi chiesi, guardandomi allo specchio. Mi voltai. Certo che sì. E non me ne fregava proprio nulla.