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Usciti dalla camera da letto di Berger, Emily e io ci precipitammo dietro a Hobart e ad alcuni uomini dell’Unità d’emergenza e della squadra Artificieri verso una scala a chiocciola che si trovava in fondo al corridoio.

«Se questo psicopatico è davvero quassù, ricordate che è esperto di ordigni improvvisati, quindi tenete gli occhi ben aperti alla ricerca di eventuali trappole esplosive!» gridò Hobart mentre cominciavamo a salire in fila indiana.

Ordigni improvvisati? Trappole esplosive? pensai, asciugandomi il sudore dagli occhi. Non riuscivo a credere a quella follia. Avevamo trovato Berger, lo avevamo preso, eppure quella storia non era ancora finita?

Certo che no, pensai, mentre salivamo velocemente verso il terzo piano dell’attico. Non dire quattro se non l’hai nel sacco.

Nel corridoio al piano di sopra faceva molto più caldo. Avvolto nella penombra, con le tende tirate, mi ricordava un solaio bizzarro, una specie di labirinto con elaborate cornici intorno al soffitto, pareti pannellate di legno e altre opere d’arte. Strane opere d’arte, pensai, osservando le pareti coperte di fotografie di paesaggi infernali e dipinti a olio di persone che si scioglievano. Passammo davanti a una grande sala quasi tutta occupata da orribili sculture primitive.

Mentre avanzavamo cauti lungo il corridoio sentivo il sudore colarmi dal naso e dalla mano che stringeva la Glock. Emily era dietro di me, vicinissima, con la pistola puntata verso il soffitto, il palmo della mano poggiato contro il mio giubbotto antiproiettile.

Sobbalzammo, tutti assieme, nell’udire un rumore secco seguito da un profondo ronzio proveniente da dietro la parete accanto a cui stavamo camminando.

«Scusate il francesismo, ma che cazzo...?» fece Emily.

«Dev’essere il motore dell’ascensore principale» sussurrò Hobart nel microfono della radio.

«Qualcuno può prestarmi un paio di mutande pulite?» disse uno degli uomini.

Un attimo dopo, Hobart e i suoi si fermarono accanto a una porta aperta alla nostra sinistra. Quando arrivai accanto a loro, rimasi sorpreso nel sentire un vento fresco.

E non era l’unica cosa sorprendente. Oltre la porta c’era una sala da bagno in marmo bianco, la più grande che io avessi mai visto. Aveva una vasca incassata nel pavimento, un caminetto, e porte a vetri che davano su un grande terrazzo di pietra. Una brezza leggera faceva muovere le bolle nella vasca da bagno e la fiamma delle candele affusolate accese nell’enorme caminetto.

«Dove diavolo è finito questo bastardo?» disse Hobart, puntando il mitra verso la vasca da bagno. «S’è sciolto nell’anticalcare?»

Seguimmo Hobart fuori sul terrazzo. Non era un semplice lastrico solare. Oltre l’elaborata balaustra di granito si godeva una vista indisturbata degli alberi di Central Park e, in lontananza, le iconiche torri del Dakota e del San Remo su Central Park West.

«Cos’abbiamo qui?» disse Hobart, inginocchiandosi all’estremità sud della terrazza. Annodata con cura intorno a una delle balaustre di pietra c’era una corda da alpinista che scendeva fino al tetto, tre piani più sotto.

Hobart portò una mano davanti al microfono.

«Voglio subito una squadra sul tetto alla base dell’attico. Fate attenzione, pare che il nostro uomo sia fuggito, o all’interno dell’edificio o all’esterno, su una delle scale antincendio.»

Seguii lo sguardo di Hobart. Aveva ragione. Guardando giù, sul tetto sotto di noi, vidi le aperture di almeno due scale antincendio. Se il nostro uomo era fuggito nell’attimo in cui avevamo sfondato la porta, a quel punto poteva essere già arrivato a piano terra o sul tetto di uno degli edifici adiacenti.

Merda. Avremmo dovuto cercare piano per piano se non addirittura palazzo per palazzo. Era anche possibile che fosse riuscito ad allontanarsi dalla zona.

Chiamai subito Miriam.

«Ho notizie buone e notizie cattive» dissi al mio capo. «Abbiamo trovato Berger, ma pare che l’uomo ripreso dalle telecamere di sicurezza sia suo complice. Non solo, ci è appena sfuggito con un numero alla Spider Man. Avremo bisogno dell’unità di Aviazione perché controlli i tetti.»

«Provvedo subito» disse lei.

«Un momento. Cos’è questo?» disse Hobart, scavalcando la balaustra sul lato nord e saltando.

Neppure due metri sotto la terrazza laterale dell’attico c’era un altro terrazzo occupato da un grande giardino pensile con palme in vaso, arbusti e piante esotiche. Contro il muro dell’edificio c’era una specie di capanno per gli attrezzi. Hobart alzò un piede come per aprire la porta con un calcio, poi ci ripensò.

Brian Dunning della squadra Artificieri scese e si avvicinò facendo scoppiare la bolla del chewingum che stava masticando. Prese un videoregistratore digitale da una sacca e infilò la telecamera a fibra ottica nella fessura sotto la porta.

«Tutto a posto. Libero» disse dopo un minuto.

Poi trattenemmo tutti il fiato mentre apriva la porta.

Gran parte del capanno era occupata da un grande tavolo da lavoro. La torcia assicurata all’MP5 di Hobart illuminò un saldatore e panetti di quella che sembrava argilla da modellare.

«Quello è esplosivo al plastico» disse Dunning, gesticolando frenetico per segnalarci di stare indietro. «Ce n’è abbastanza da far saltare il tetto. Dobbiamo evacuare l’attico e il piano del tetto. Subito.»

Conto alla rovescia: Un caso di Michael Bennet, negoziatore NYP
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