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Dopo un istante, Emily scivolò contro di me mentre il furgone slittava di coda con uno stridio di freni. Quando salì sul marciapiede davanti al palazzo di Berger dopo aver attraversato la Quinta Avenue, rischiai di prendere una zuccata contro il soffitto.

Gli sportelli posteriori si spalancarono ed Emily e io seguimmo la squadra tattica attraversando il marciapiede fin sotto la tenda verde bosco. Quando i miei occhi si abituarono alla penombra dell’atrio, vidi il portiere appiattito contro la parete sotto un immenso quadro a olio, il cappello a terra tra i piedi, le mani coperte dai guanti bianchi sollevate in alto. Un cartello accanto a lui diceva TUTTI I VISITATORI DEVONO ESSERE ANNUNCIATI.

«Non oggi, amico» disse Hobart, porgendogli il cappello caduto.

Tutti i presenti si bloccarono quando la porta dell’ascensore in fondo al corridoio si aprì con un trillo. Cinque o sei puntatori laser si posarono su una giovane coppia, alta, bella ed elegante. Prima di poter anche solo aprire bocca i due si ritrovarono bocconi sul tappeto orientale.

«Sono puliti, capo» disse Wong, lanciando a Hobart il portafoglio del giovane professionista.

Da una porta accanto all’ascensore comparve un uomo massiccio, con capelli neri, una tuta blu da lavoro e occhiali con montatura in metallo.

«L’ascensore di servizio è qui, agenti. Da questa parte» disse con un forte accento dell’Europa dell’Est, facendo cenni frenetici con la mano.

Una squadra rimase a presidiare l’atrio, mentre noi ci infilavamo in un corridoio polveroso e salivamo, pigiati come sardine, su un montacarichi da film noir.

«È pazzesco, è davvero pazzesco» continuava a ripetere il custode mentre azionava il montacarichi manuale.

Puoi ben dirlo, pensai. Nessuno aveva voglia di scherzare e neppure di parlare mentre guardavamo i piani scivolar via con un inquietante sferragliare di catene.

Arrivati all’ultimo piano, uscimmo in un corridoio squallido, stretto e privo di finestre, illuminato solo da una lampadina che pendeva dal soffitto. Quello era senza dubbio l’accesso di servizio. Hobart ci fece segno di fermarci nel punto in cui il corridoio faceva una curva, accanto ad alcuni contenitori della spazzatura. Due uomini corsero in avanti e si inginocchiarono accanto alla serratura dell’ingresso di servizio dell’appartamento di Berger per posizionare l’esplosivo.

Tornarono indietro di corsa e Hobart avvertì per radio alcuni suoi uomini nel seminterrato dell’edificio.

«In posizione» disse.

«Ricevuto. Ora stacco l’interruttore. Non c’è più corrente. Potete andare» rispose un poliziotto dall’altra parte.

Hobart fece un cenno col capo e uno dei suoi schiacciò qualcosa su un esploditore a forma di cucitrice. Ci fu un’esplosione fortissima e la porta di Berger andò in mille pezzi.

I momenti che seguirono furono un gran trambusto di uomini che correvano e urlavano.

«FBI!» urlò Hobart con un tono di voce che avrebbe potuto buttar giù la porta anche senza esplosivo. «A terra! A terra! FBI! Tutti a terra!»

Emily e io entrammo dietro di loro scavalcando i resti ancora fumanti della porta e ci ritrovammo in una cucina con un soffitto molto alto. Invece dei banconi in granito e degli eleganti pensili che mi sarei aspettato, vidi cucine economiche industriali parecchio usate e piani di lavoro in acciaio inossidabile. Quella sorpresa, però, fu niente in confronto a ciò che trovammo nella sala da pranzo.

C’erano una decina di tavoli perfettamente apparecchiati con tovaglie di lino, piatti, posate e candele. Per qualche motivo, le porcellane, i bicchieri di cristallo e l’argenteria creavano un’atmosfera da brivido. In un angolo, su una piattaforma rialzata, c’era persino un pianoforte a coda. Era come se fossimo entrati in un ristorante.

«Della serie ’non sai mai cosa aspettarti’...» osservò Emily, scuotendo la testa.

Da lì entrammo in un soggiorno ancora più ampio, pannellato di legno. Sulle pareti di mogano c’era un’incredibile quantità di opere d’arte, un mix di schizzi e fotografie che avrebbero potuto benissimo figurare in un museo, e quello che sembrava un Renoir. Roba moderna.

«Ci sono più quadri che pareti» dissi.

Stavamo andando verso le scale sull’altro lato del soggiorno quando udimmo delle urla provenire dal piano di sopra. Ci fu un tonfo così forte da far tremare i lampadari, seguito da un urlo agghiacciante.

«Che succede? Perché siete in casa mia? Cosa diavolo state facendo?» udii quando arrivai al piano superiore davanti alla porta ostruita dagli uomini del comando.

Poi guardai dentro.

«No» dissi, spalancando gli occhi per la sorpresa.

Emily si avvicinò per guardare e sbatté contro di me.

«Cosa diavolo...?» fece lei, scuotendo la testa.

«Mi state facendo male alla schiena. Ho dei problemi alla schiena» disse l’uomo sul pavimento... immensamente grasso, nudo, steso a faccia in giù sul pavimento.

Conto alla rovescia: Un caso di Michael Bennet, negoziatore NYP
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