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Mentre la mamma spia scaricava me ed Emily davanti al quartier generale, sentii un formicolio al fianco. Purtroppo non era il mio sesto senso che mi informava dell’attuale posizione di Apt, ma il cellulare che avevo lasciato acceso con la vibrazione.
«La buona notizia è che non dovrai partecipare alla riunione di stamattina» disse il mio capo. «Indovina?»
Mi staccai il cellulare dall’orecchio e lo fissai appoggiandomi con la schiena a una delle grandi fioriere di cemento davanti all’edificio.
«Un altro?» chiese Emily con un gemito.
«Come? Dove?» dissi, alla fine, nel microfono.
«Il Carlyle Hotel» rispose Miriam. «Madison e Settantesima e qualcosa. Sembrerebbe una prostituta, Mike. Devi andare sul posto prima che arrivino i media. Questo tizio non si ferma.»
Emily e io prendemmo la mia auto, attraversammo la città fino alla Sesta Avenue e svoltammo a destra. Era un’altra giornata caldissima. Quando arrivammo a Midtown, l’impianto di aria condizionata, spinto al massimo, cominciava a sputare acqua. Arrivati nelle vicinanze della Quarantaduesima, il traffico si fermò e da lì fummo costretti a procedere a singhiozzo sotto un sole abbagliante. Pensavo ci fosse stato un incidente o magari che il presidente fosse in città, e invece scoprimmo che era solo un’agente addetta al traffico che aveva deciso di bloccare le due corsie di destra per nessun motivo evidente.
«Stiamo scherzando? Togliti di mezzo!» urlò Emily, sportasi dal finestrino quasi volesse fare a pezzi la donna mentre le passavamo accanto rombando.
«Buona giornata anche a lei, agente Parker» dissi, prendendola in giro, mentre pestavo sull’acceleratore nella speranza che la dipendente comunale non riuscisse a prendere il nostro numero di targa. «Vuoi fermarti a prendere un caffè freddo? Oppure potrei accostare e aprire un idrante, così ti rinfreschi un po’.»
«Non so proprio come tu faccia, Mike» disse Emily, misurandosi le pulsazioni. «Questa città. Questo caldo. Non c’è da stupirsi che qui siate tutti pazzi.»
«Compresi i presenti» dissi, indicandola.
Proseguimmo fino a Madison Avenue con un’andatura un po’ più spedita. Cominciammo a vedere negozi di lusso con nomi esotici. Emanuel Ungaro, Sonia Rykiel, Bang & Olufsen, Christian Louboutin. Erano negozi di valigeria? Gioiellerie? Studi legali? Se non lo sapevi, significava che non potevi permetterteli, e io, decisamente, non lo sapevo.
Il Carlyle si trovava tra la Settantacinquesima est e la Settantaseiesima, sul lato ovest di Madison Avenue, proprio dietro l’angolo rispetto al palazzo di Berger sulla Quinta. Forse Apt stava diventando più imprudente, riflettei. O forse sentiva la nostalgia di casa? O magari si stava facendo beffe di noi? In quel caso c’era pienamente riuscito, perché io mi sentivo davvero preso in giro.
Fummo costretti a fare il giro dell’isolato per parcheggiare in doppia fila sulla Settantaseiesima dietro un’autopattuglia. Mentre ci avvicinavamo al Carlyle, vidi che una parte dell’albergo era in ristrutturazione. C’erano un prefabbricato sul marciapiede e un montacarichi esterno fissato alla facciata nord di arenaria chiara. Davanti all’ingresso del cantiere, una ventina di operai, metà dei quali a torso nudo, si godevano un caffè, una sigaretta e la vista delle donne che passavano. Quando passammo noi, la loro attenzione si spostò subito sulla mia partner.
Il Carlyle aveva uno di quegli atri che, quando entri, ti spingono a controllare se hai le scarpe lucidate e la cravatta a posto. Da qualche parte c’era un piano che suonava e lampadari grossi come monovolume scintillavano tra le pareti di marmo bianco purissimo. Il pavimento di marmo nero era così lucido che pensai fosse bagnato.
Un ometto di colore altrettanto tirato a lucido in completo blu scuro ci bloccò al banco della reception. L’uomo sembrava incapace di sudare, come se si fosse fatto rimuovere da tempo le sconvenienti ghiandole responsabili.
«Sono Adrian Tottinger» disse il direttore. «La... ehm... sventurata persona si trova al piano di sotto, dove stanno lavorando.»
Quando uscimmo nella tromba delle scale di servizio faceva di nuovo molto caldo. In fondo ai gradini, un agente in uniforme interruppe la telefonata che stava facendo e ci condusse lungo un corridoio soffocante oltre la cucina e la rumorosa lavanderia dell’albergo.
Dietro alcuni fogli di plastica appesi e un’altra porta, ci ritrovammo nella parte di albergo in ristrutturazione. C’era una vaga puzza di fogna e da sopra di noi giungevano urla e il rumore di pistole sparachiodi. Avanzammo sulla ghiaia fino a un angolo in cui erano fermi altri agenti in uniforme.
La «sventurata persona» era sdraiata in una grande vasca usata per miscelare il cemento. Anzi, la donna era stata cementata nella vasca, da cui uscivano solo la testa, le braccia e la parte inferiore delle gambe. Come se avesse scambiato la vasca di cemento fresco per una Jacuzzi e vi si fosse addormentata.
Era di carnagione molto chiara, aveva capelli biondi, quasi bianchi, e assomigliava a Marilyn Monroe o a Madonna. Nonostante il volto coperto di ecchimosi e il collo gonfio e violaceo, si capiva che doveva essere stata molto bella. Adesso era nuda, priva di vita, gettata via come immondizia tra i secchi pieni di viti per il cartongesso e i bidoni sporchi di gesso del cantiere.
«Fammi indovinare. Questo omicidio rientra in qualche modo nel profilo di Joel Rifkin» dissi.
Emily si era già inginocchiata e stava frugando nella borsa tra le fotocopie delle sue ricerche.
Tirò fuori un foglio.
«La seconda vittima di Rifkin è stata picchiata e strangolata.»
«Esatto.»
«Le parti smembrate del corpo nascoste dentro secchi di cemento.»
«Questo non è esattamente un secchio, ma un valido sostituto.»
«Valido» ripeté Emily mentre sopra di noi riprendeva il martellio.