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Era buio quando Berger si fermò con la Mercedes sotto le luci fredde e violente di una stazione di servizio della BP all’incrocio tra la Decima Avenue e la Trentaseiesima Strada, a Manhattan.
Subito dopo l’accoltellamento si era cambiato, indossando jeans e una T-shirt, e aveva chiuso gli indumenti insanguinati in un sacchetto. Dalla scena del crimine era andato direttamente verso il Throgs Neck Bridge, dal quale aveva lanciato tutto in acqua, compresi coltello e parrucca. Poi aveva guidato per ore attraverso i cinque distretti, per rilassarsi e scaricare la tensione e, come sempre, pensare e pianificare. Le idee migliori gli venivano quando era al volante.
Adesso si era fermato, non solo per fare rifornimento ma perché il ginocchio sinistro cominciava a fare le bizze. Ehi, saluti da quaggiù, amico, sembrava dire. Ti ricordi di me? In Iraq, quel lanciagranate, quel pezzo di tondino di ferro che mi ha spappolato muscoli, legamenti, nervi, vasi sanguigni? Be’, mi dispiace ricordartelo, ma comincio a sentire male, quaggiù, amico, e mi chiedevo cosa avessi intenzione di fare.
Stringendo i denti contro il dolore, Berger sbloccò il tappo del serbatoio e scese a fatica dall’auto, massaggiandosi la gamba. Mentre faceva rifornimento, mandò giù un Percocet, una «vitamina P» come lo chiamava lui.
Venti minuti più tardi guidava la decappottabile verso la parte alta della città, vicino alla Columbia University, nel quartiere di Morningside Heights. Puntò a ovest e incontrò Riverside Drive, forse la strada più bella di Manhattan. Oltrepassò la tomba di Grant, tutta illuminata, con le colonne bianche scintillanti e la rotonda, pallida contro il cielo color indaco della notte estiva.
Mentre seguiva le curve eleganti di Riverside Drive si sorprese a sorridere. In effetti aveva molto per cui sorridere. Edifici splendidi alla sua destra, l’acqua scura alla sinistra, un Percocet in corpo. Cominciò a bruciare qualche rosso, solo per il gusto di farlo, tagliando la strada alle altre auto e mettendo alla prova l’ultimo V8 uscito dalle officine di Stoccarda.
Adorava quel nuovo giocattolo da centomila dollari. Adorava la forza bruta che si sprigionava dal motore. Adorava la facilità con cui l’auto si infilava nelle curve strette. Come diceva Oscar Wilde: ho dei gusti semplicissimi, mi accontento sempre del meglio, pensò.
Stanco di perdere tempo, Berger accelerò. Facendo lo slalom fra i taxi, arrivò all’altezza della Centoventicinquesima alla velocità suicida di centotrenta chilometri orari. Quando vide la luna piena sopra l’Hudson, lanciò un ululato.
Poi gli venne in mente una cosa.
Perché no?
Di colpo si mise a sedere sullo schienale e cominciò a guidare con i piedi come aveva visto fare a Jack Nicholson in un film.
Con il vento in faccia e quel sacro furore nella testa, Berger se ne stava con i piedi nudi sul volante e le braccia incrociate come un genio che si fa trasportare da un tappeto magico. Incrociò un’auto e la donna alla guida suonò il clacson. Lui rispose con un altro colpo di clacson. Con il piede.
In confronto a me Nicholson era un dilettante, pensò.
Si sentiva proprio bene. Vivo per la prima volta da anni. Il che era ironico, visto che da lì a una settimana probabilmente sarebbe stato morto quanto il vecchio Ulysses Grant.
Tutto in onore di Lawrence, ovviamente.
Berger ululò di nuovo ributtandosi sul sedile e schiacciando a fondo il pedale dell’acceleratore.