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Era buio quando Berger attraversò il Whitestone Bridge. Sollevò il tettuccio della Mercedes decappottabile e uscì dalla 678 imboccando Northern Boulevard, a Flushing, nel Queens.
Traffico, aeroporti squallidi, una squadra di baseball ancor più squallida. C’era qualcosa che non facesse schifo, nel Queens?
Percorse a velocità moderata il reticolo di strade cercando di non perdersi. Non era facile, con tutte quelle casette linde e ordinate e quei condomini bassi tutti uguali, disposti in file così regolari, così noiose. Grazie al cielo esistevano i navigatori satellitari.
Cinque minuti dopo si fermò e parcheggiò dietro un autobus per il trasporto dei disabili nei pressi di una strada di servizio alberata lungo la Cross Island Parkway. Spense il motore, ma lasciò la radio accesa. Ascoltò un talk show per un po’, poi trovò un rassicurante concerto di Brahms.
Quando finì, Berger rimase lì in silenzio nell’oscurità. Era una tortura starsene seduto ad aspettare quando c’era ancora così tanto da fare. Aveva seriamente preso in considerazione l’idea di cambiare gli accordi e rinunciare a quella parte, ma alla fine aveva deciso di no. Ogni piccola cosa contribuiva alla riuscita finale, si disse. Quando aveva dipinto la cappella Sistina, Michelangelo aveva montato da sé le impalcature e si era preparato i colori da solo.
Era passata quasi mezz’ora quando una Volvo Crossover nuova lo superò e imboccò un viottolo nascosto che risaliva la collinetta boscosa fino al traliccio di un elettrodotto.
Attese dieci minuti per dar loro il tempo di cominciare, poi infilò i suoi fidati guanti da chirurgo, tirò fuori la parrucca nuova con i riccioli neri e prese il sacchetto.
Le lucciole tremolavano fra l’erba alta e i fiori selvatici mentre lui arrancava su per la strada di servizio deserta e afosa. Avrebbe potuto trovarsi in montagna, nel Vermont, se non fosse stato per quel grosso traliccio che spiccava come una brutta cicatrice nera sul cielo della mezzanotte.
Le luci della Volvo parcheggiata erano spente ma avvicinandosi Berger colse un sacco di movimento dietro i finestrini appannati. Gli venne in mente uno di quegli adesivi che si vedono sui paraurti delle auto: SE MI VEDI OSCILLARE NON T’AVVICINARE. Prese la pistola tozza e pesante, una .44 Bulldog, dal sacchetto di carta e batté contro il vetro.
«Toc toc» disse.
Erano tutti e due sul sedile del passeggero reclinato. Fu lei a vederlo per prima oltre la spalla dell’uomo. Era graziosa, una rossa con la carnagione color crema.
Quando la donna si mise a urlare, Berger arretrò appena nell’oscurità.
Mentre l’uomo cercava di tirarsi su i pantaloni, Berger girò intorno alla vettura, passando da dietro, arrivò all’altezza del finestrino del guidatore e si preparò. Assunse la posizione di tiro Weaver, impeccabile, due mani tese, gomiti saldi ma non bloccati, il peso uniformemente distribuito sulle dita dei piedi. Quando alla fine l’uomo si tirò su, la Bulldog era puntata esattamente contro il suo orecchio.
I due potenti boati e il forte rinculo della grossa pistola quasi lo sorpresero dopo lo scatto del grilletto leggero e morbido. Il finestrino esplose, come pure la testa del tizio infoiato, un uomo di mezza età. La ragazza era coperta di schizzi di sangue e materia grigia. Le sue urla si fecero più stridule.
Berger si asciugò il sudore dagli occhi con la manica della camicia. Abbassò il pesante revolver e con calma girò intorno alla macchina, questa volta passandole davanti, e tornò al finestrino del passeggero. In situazioni come quella era necessario restare concentrati, agire con calma. La donna stava cercando di scavalcare l’amante privo di vita quando Berger arrivò sull’altro lato della macchina. Si mise di nuovo in posizione e attese che lei si voltasse.
Altri due boati risuonarono come esplosioni di dinamite mentre lui piazzava due proiettili .44 in mezzo alla fronte pallida della ragazza.
E poi venne il silenzio, pensò Berger, restando in ascolto. Ed era piacevole.
Con le dita che ancora gli formicolavano per il rinculo, Berger buttò la pistola nel sacchetto di carta e prese la busta dalla tasca.
La lanciò dentro l’auto attraverso il finestrino in frantumi. Sopra c’era scritto, a macchina: MICHAEL BENNETT NYPD.
Canticchiando un’aria del concerto che aveva ascoltato poco prima, Berger si tolse un guanto di gomma tirandolo con i denti e corse giù per la collinetta, verso la sua macchina.