Epilogo

Come voleva la tradizione, il giorno dopo il vento cessò.

La Rebecca se ne guardò bene dal dirlo in giro, e men che meno di dirlo al sciòr prevòst, perché sembrava avesse qualcosa sullo stomaco o, peggio, avesse ricevuto in confessione delle confidenze che l’avevano turbato.

Ma il vento, lei lo sapeva, aveva finito di soffiare perché el diàol aveva portato a termine il suo lavoro, aveva fatto il suo bottino e per intanto si era saziato.

S’era portato via l’anima di un poveretto, un bamba, caduto nella rete di due arpie di cui una era in galera, e ben gli stava, che ci marcisse!, e l’altra, che dopo il funerale del Geremia era sparita, chisà in dov’è che l’era andàda a scòndes!

Come il vento, anche el diàol aveva lasciato dietro di sé la coda.

Il vento s’era lasciato dietro un freddo becco, s’era portato via tutti i colori del mondo, a parte il color cenere del lago e un marrone marcio sulle montagne, come di carne andata a male.

Per quanto riguardava il diàol, aveva lasciato nel dolore la Stampina, per esempio, o il maresciallo Citrici, poveretto, che non si dava pace per non essere riuscito a salvare la pelle del Geremia. E anche nel malumore del sciòr prevòst che, se la perpetua lo conosceva bene, sarebbe stato sulle sue per un mese buono e avrebbe trasformato quella canonica come un convento di frati di clausura.

E poi la rabbia.

La sua.

Contava niente la sua rabbia?

Ormai no.

Però se le avessero detto qualcosa, l’avessero informata di quello che andava accadendo invece di tenerla come se fosse l’ultima ruota del carro, avrebbe messo sull’avviso tutti quanti, perché lei sapeva che dietro quei fatti c’era il maledetto diàol.

Mica tutti potevano sentire il suo odore di zolfo anche se tentava di coprirlo coi profumi, né vederlo dietro i rossetti, le ciprie e i bei vestiti, come aveva fatto quella Ficcadenti.

Ma ormai, pensava la Rebecca, chi muore giace, chi vive si dà pace, c’era poco da fare, nessuno restava qui per far semenza, indietro non si tornava.

Un mese dopo l’accaduto, e dopo un mese di chiusura, sulla porta della merceria Ficcadenti, come se niente mai fosse successo, comparve un cartello.

CHIUSO PER CESSATA ATTIVITÀ

Il giorno seguente il Galli dell’omonima merceria suonò verso l’una alla porta di casa del segretario Cesarino Pazienza.

«Mi scuso per l’ora» disse, dopo aver salutato la moglie del segretario, signora Tantina.

Il Pazienza era ancora seduto a tavola, stava finendo di pranzare, sbucciava una mela.

«Nessun disturbo» si affrettò a intervenire la padrona di casa, intuendo dalla mimica del marito che lo stesso era assai poco propenso a scusare l’intrusione a casa sua e per di più durante l’ora di pranzo.

«Si tratta di cosa delicata» si giustificò il merciaio.

Il segretario si tolse il tovagliolo che aveva infilato nel collo della camicia.

«Delicata!» commentò con un tono di voce che denunciava esattamente l’opposto.

La moglie non osò invitare l’ospite a sedere. Il Galli, che delle buone maniere in certe occasioni sapeva fare a meno, partì a spiegare.

«Si tratta della merceria… anzi» si corresse, «della ex merceria di quelle due.»

Che il segretario lo correggesse pure se sbagliava. Ma riteneva di non farlo calcolando che se la Deputazione Amministrativa aveva loro concesso una licenza per quel genere di commercio significava che adesso, con la chiusura del negozio, la stessa licenza restava libera.

«O no?»

Il segretario evitò di rispondere: era evidente che il Galli avesse un obiettivo ben preciso e, prima che non l’avesse raggiunto, dalla sua bocca non sarebbe uscita nemmeno mezza parola.

«Quindi…» riprese il merciaio.

Libera e acquisibile da qualcun altro che si mettesse in testa di seguire le orme delle due Ficcadenti.

Il Pazienza guardò il Galli.

Il viso voleva dire “E allora?”, ma dalla bocca non gli uscì nemmeno un verso.

«In questo caso» concluse il merciaio, «vorrei ritirarla io.»

«Voi?»

La domanda sfuggì tra le labbra della signora Tantina, fulminata subito da uno sguardo del marito. Il quale non aveva bisogno come la moglie di comprendere le ragioni di quella mossa: bloccare la licenza in oggetto, in modo da impedire che chiunque ne potesse approfittare.

«Sapete» si confidò il Galli, «ho preferito venire a parlarvene qui, disturbandovi in casa vostra, per evitare che qualche orecchio estraneo sentisse… parlasse…»

Un vago sorriso illuminò il volto del Pazienza.

«E avete fatto bene» disse poi il segretario, stupendo la moglie.

Il Galli lo ringraziò.

«Ma avreste dovuto pensarci prima» proseguì il Pazienza freddando entrambi.

Perché proprio il giorno prima, e senza timori che orecchie estranee potessero venire a conoscenza delle sue intenzioni, il suo collega Tocchetti era andato da lui a presentare regolare domanda per rilevare a nome della moglie la licenza della merceria ex Ficcadenti. Ne conseguiva che alla prossima riunione la Giunta Amministrativa non avrebbe avuto difficoltà di sorta nel decidere.

All’uscita del Pazienza, il Galli fu lì per obiettare qualcosa, ma tacque.

Mica c’entrava il segretario in quell’inghippo.

Piuttosto quel bastardo del suo collega, quella faccia di merda del Tocchetti che aveva fatto le cose di nascosto, topo di fogna che non era altro, per fregarlo e metterlo di fronte al fatto compiuto. Così che adesso gli sarebbe toccato cospargersi il capo di cenere, fare buon viso a cattiva sorte, leccargli il culo per cercare di capire che intenzioni avesse.

Uscì da casa Pazienza, dimenticando a sua volta le buone maniere, senza quasi salutare. Mentre il segretario Pazienza, masticando un ultimo spicchio di mela ormai quasi ossidato, rise francamente e per poco non si ingozzò.

«Idiota!» esclamò, rosso in viso.

«Il Galli?» chiese la moglie.

«Anche il Tocchetti» aggiunse l’uomo.

«E perché mai?»

«So io» rispose misteriosamente il segretario.

Su ciò che accadeva tra le mura del suo ufficio aveva sempre mantenuto un invincibile segreto. Pure alla moglie, sebbene fosse donna fidata, evitava di raccontare cose di lavoro. Anche quella volta mantenne fede al silenzio.

Lasciò che fosse il tempo a raccontare gli sviluppi della vicenda.

Con l’arrivo, dapprima, di un autocarro leggero Fiat F2, sul cui telone compariva la scritta della ditta “BELLINZONITRASPORTI INTERNAZIONALI”, con sede in Locarno. In poco meno di una mattina due silenziosissimi trasportatori caricarono tutto ciò che la ex merceria Ficcadenti conteneva e se ne andarono, lasciandosi dietro locali di una nudità imbarazzante e una sorprendente novità, grazie alla loquacità dell’autista che, ciarliero come un usignolo, non si mosse dal posto guida ma accettò ben volentieri di parlare con i curiosi che attorniarono l’automezzo: la vedova Pradelli, che fu non senza fatica identificata in Zemia Ficcadenti, abitava adesso a Culdrée, Coldrerio, nel mendrisiotto e in quello stesso paese stava per aprire una merceria, visto che non ce n’era alcuna. Alla Zemia l’idea era venuta grazie al suggerimento di un vecchio cliente del genitore che, proprio da Coldrerio, aveva scritto alla Premiata Ditta per chiedere indicazioni circa artigiani che potessero realizzare, con abilità pari a quella del defunto genitore, una serie di bottoni che celebrassero la figura di Gasparo Mola, orafo e medaglista, i cui natali erano oggetto di contesa tra comaschi e ticinesi. Zemia aveva risposto raccontando come ormai fosse sola al mondo e del tutto priva di prospettive, al che il ticinese le aveva fatto quella proposta: se non aveva niente contro il Canton Ticino, Coldrerio le offriva la possibilità di ripartire. E non proprio da zero, visto che almeno possedeva la materia prima per aprire una merceria là dove non c’era mai stata. Per Zemia quella risposta era stata come una specie di secondo battesimo. Era partita lancia in resta verso la sua nuova vita e tenendo per sé la licenza della Premiata Ditta Sorelle Ficcadenti. Nessuno sarebbe entrato in quei locali fino a che lei fosse vissuta, le voci che si erano incrociate in quelle stanze sarebbero rimaste lì a far compagnia alla polvere e al silenzio. Fino a quando il vento staccò il cartello “CHIUSO PER CESSATA ATTIVITÀ”, senza sapere che lì dentro un’attività impalpabile come la sua stessa sostanza continuava a esserci.

Premiata Ditta Sorelle Ficcadenti
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