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Don Filo Parigi non aveva perso tempo, era andato a colpo quasi sicuro.

Da qualche mese aveva sottomano una situazione delicata, quella in cui s’era venuta a trovare Estatina Sommagiunta di Muggiò dopo l’improvvisa morte del marito Stabio, magnano di professione, avvenuta nel momento stesso in cui lei stava partorendo la figlia Zemia.

Insinuazioni maligne volevano che il cuore del magnano non avesse retto alla bruttezza della moglie aggiunta a quella, evidentissima sin da subito, della nuova nata. Fatto improbabile, che però non aveva impedito il nascere della chiacchiera secondo la quale il povero Stabio era stato indicato come “quello morto di parto”.

Sulla bruttezza delle due non c’erano discussioni. Pure a don Parigi era sembrato che a tutto ci fosse un limite, quindi non s’era curato tanto di proporre all’Estatina la possibilità di un secondo matrimonio, quanto piuttosto di descrivere al Ficcadenti con ammirevole verismo quello che, accettando, si sarebbe ritrovato per casa: una moglie che il Signore non aveva certo benedetto con i doni della grazia e dell’avvenenza, pure già dotata di una figlia, che nonostante avesse solo quattro anni, prometteva di crescere in tutto e per tutto simile alla madre.

A fronte di ciò, poteva garantire sulla serietà e nobiltà d’animo della donna, sulla fervida fede e sulla inesauribile energia, tanto che la sua casa, pur essendo dimora di magnano, era sempre linda e ordinata.

A Domenico Ficcadenti importava assai poco di avere una moglie bella, della quale aveva sperimentato i piaceri negli anni in cui aveva vissuto con l’Orisanti: anzi, non voleva che quei ricordi venissero adombrati da altri. Gli serviva piuttosto una donna che badasse alla Giovenca.

Aveva una figlia di quattro anni?

Meglio ancora!

Le due piccole sarebbero cresciute insieme, avrebbero giocato, si sarebbero fatte compagnia.

Circa la bruttezza di Estatina, oltre a non importargliene, aveva ragionato che, con il lavoro che lo impegnava dalla mattina sino a sera inoltrata, avrebbe avuto poco tempo per intristirsene. Rapidamente aveva quindi deciso per il sì e altrettanto in fretta aveva deciso quando don Parigi, per una volta pragmatico, gli aveva fatto notare che forse non era il caso di utilizzarla in merceria.

«Diavolo» aveva sbottato, «ma è così brutta?»

«L’avete detto» aveva confermato il prete.

«Vuol dire allora che in negozio assumerò una giovane del paese» aveva deciso, e la faccenda si era chiusa lì.

Da quel momento l’aveva vista una sola volta, una settimana prima del matrimonio, e aveva dovuto ammettere tra sé che don Parigi gliel’aveva descritta con fedeltà assoluta.

La seconda volta l’aveva vista il giorno delle nozze. Nozze quasi clandestine, crepuscolari, celebrate alla sola presenza dei testimoni, e in quella circostanza aveva preso visione anche della piccola Zemia, un riassunto del sembiante materno.

«Avete qualche ripensamento?» aveva chiesto don Parigi prima di procedere alla cerimonia.

«Nemmeno per sogno» aveva risposto deciso il Ficcadenti.

«Dio vi benedica allora» aveva concluso euforico il celebrante.

Era il 26 ottobre 1890 e su Albate e dintorni cadeva un’autunnale pioggerella.

Da quel momento le due, Giovenca e Zemia, crebbero insieme e fu giocoforza assimilarle a due sorelle, al punto che la Zemia, benché all’anagrafe fosse registrata come Spesozzi, che era il cognome del genitore naturale, aveva cominciato a essere chiamata signorina Ficcadenti.

Cresciute assieme, trattate alla pari sia dall’Estatina che dal Ficcadenti il quale, peraltro, le vedeva assai poco, solo di sfuggita e alla sera, ma seguendo un destino diametralmente opposto.

Giovenca aveva piano piano incarnato la bellezza. Alta e formosa come la disgraziata che l’aveva mollata in casa Ficcadenti, e bionda, colore probabilmente ereditato dall’anonimo che si era congiunto con sua madre. Aveva occhi neri che le davano uno sguardo diretto, una dentatura perfetta, una risata che accendeva i sensi. A dieci anni era già alta il doppio di Zemia che invece continuava a essere il ritratto della madre, sempre un po’ ammalata, inappetente, spesso ingrugnata, soprattutto dopo essersi guardata allo specchio per pettinarsi. Estatina, che non voleva destinare la figlia alle stesse contumelie, di parte sia maschile sia femminile, che avevano scandito la sua infanzia e l’adolescenza, aveva cercato in ogni modo di tenerla vicino a sé, impedendole di uscire da casa e contribuendo così a formare un carattere mutacico quando non ostile. Aveva un bel dirle che anche per lei sarebbe arrivato il momento della gloria, e citava se stessa quale esempio per aver avuto non uno ma ben due mariti, tacendo che il primo, il magnano, l’aveva sposata quasi senza avvedersene poiché viveva in uno stato di ubriachezza pressoché perenne, mentre il secondo era un marito tanto per dire, visto che dormiva in una stanza separata e quando le parlava era giusto per dirle buongiorno, buonasera e buonanotte.

Non che il Ficcadenti fosse improvvisamente divenuto villano o si fosse pentito del matrimonio. Gli affari, piuttosto, che andavano a gonfie vele, lo tenevano lontano dalla casa a volte per giorni interi quando, per esempio, doveva recarsi a Milano, Brescia o Bergamo per stringere nuovi accordi. Oppure quando, fulminato da una nuova idea per una certa forma di bottone, passava giornate e nottate intere a disegnare e poi a riprodurre il bottone, tentando e ritentando sino a che riusciva a ottenere quello che aveva in testa. Poco tempo, quindi, e poca voglia anche, per guardare Estatina e Zemia. Un po’ di più, invece, per osservare Giovenca da quando aveva cominciato a capire che la bambina stava diventando ragazza, e che ragazza!, e soprattutto quando, lei sedicenne, si era reso conto di che razza di bomba gli stava crescendo in casa.

Lo scoppio, o fioritura, di Giovenca si era compiuto in poco più di sei mesi: da un giorno con l’altro, era parso al Ficcadenti che la Giovenca di ieri scomparisse per lasciare posto a una Giovenca diversa, più bionda, più formosa, più alta e più allegra. Sino al momento in cui, lei stessa, una sera dopo la cena, gli aveva confessato di essere stufa di stare in casa o di gironzolare per Albate a contare le ore del giorno. Voleva qualcosa da fare, un lavoro.

Al Ficcadenti quella richiesta aveva fatto sommamente piacere. Vedendola così bella, s’era immaginato che quella figlia adottiva potesse farsi traviare dalla sua avvenenza e usarla come sola arma per vincere le difficoltà della vita. Invece, sotto quello splendore, aveva intuito una sana coscienza, e la richiesta della ragazza ne era prova inconfutabile.

«Bene» aveva approvato lui. E l’aveva affiancata alla giovane che stava in merceria. Nel giro di poco più di un mese Giovenca s’era appropriata del mestiere al punto che l’altra era divenuta superflua.

Era stata una mossa che aveva prodotto più di un risultato. Il traffico nella merceria aveva registrato un considerevole aumento grazie a una componente maschile che prima non s’era mai vista: l’avvenenza della giovane merciaia aveva stimolato la curiosità dei ganzi di Albate e dintorni, così da spingerli a entrare con le scuse più varie per rendersi conto di come quelle udite non fossero solo fole. Era stato così che Giovenca aveva cominciato a prendere coscienza della propria bellezza e Zemia della propria, irrevocabile bruttezza.

Se Zemia aveva cominciato a evitare gli specchi, sua madre non poteva fare a meno di vederla. Ogni volta che metteva a confronto le due, a pranzo o a cena, si sentiva sempre più colpevole per aver messo al mondo una figlia che nessuno avrebbe voluto nemmeno in regalo. Temeva il momento in cui la Giovenca sarebbe andata in sposa a questo o quel bel giovanotto abbiente, lasciando sua figlia sola in balia di un destino incerto e sicuramente solitario. E così, macerandosi continuamente in quei pensieri, aveva finito per ammalarsi. Prima l’anima, e per mesi e mesi era riuscita a tenere nascosta la sua pena. Poi, però, il corpo. E quando nell’inverno del 1907 aveva cominciato a sputacchiare sangue, non aveva potuto tenere nascosto il suo stato di tubercolotica già avanzata. A poco era servito il soggiorno di un anno presso il sanatorio di Groppino. Secondo i medici di lassù, il mal sottile di Estatina si alimentava dei tristi pensieri ai quali non riusciva a sottrarsi e contro di essi non c’era cura che potesse. Tornata in Albate, dopo aver visto Giovenca, sempre più florida, e soprattutto Zemia, sempre più opaca, si era chiusa nella sua stanza da letto nella quale lasciava entrare solo chi le portava i pasti e don Filo Parigi il quale, a un certo punto, per vincere le resistenze della donna era ricorso a un trucco.

Un pomeriggio, aveva detto a Estatina, mentendo, che, secondo il medico, le restava poco da vivere ed era quindi giunto il momento di liberarsi dalle sue angosce per compiere il gran passo il più lievemente possibile. La prospettiva di morire a breve aveva agghiacciato la poveretta, spingendola a confessare tutto il suo dolore per la figlia.

«Che vita avrà» aveva detto, «quando non ci sarò più io?»

Quella stessa sera in casa Ficcadenti, presente anche Domenico, s’era tenuto un consiglio di famiglia durante il quale don Parigi aveva esposto la situazione.

Giovenca, allora ormai quasi ventenne, aveva già cominciato a ricevere e rifiutare le prime proposte di matrimonio: nel silenzio che era seguito alle parole del sacerdote era uscita dicendo che mai e poi mai avrebbe abbandonato la sua sorellina, poiché tale la riteneva. Don Parigi le aveva fatto notare quanto fosse azzardato, alla sua età, fare promesse del genere, e s’era sentito rispondere da Giovenca che era disposta a giurarlo sui Sacri Vangeli, cosa che al sacerdote non era sembrata opportuna.

«Va bene, allora, se lo giuro davanti a Estatina?» aveva chiesto Giovenca.

«Certamente…» aveva risposto il prete, cercando di nascondere un filo di esitazione.

«Subito, andiamo!» era esplosa la ragazza, trascinando l’intera compagnia, don Parigi in coda, nella stanza di Estatina la quale, trovandosi al cospetto di tutta la famiglia, aveva immaginato che il suo momento fosse ormai prossimo.

Era stata la stessa Giovenca a chiarire il motivo della loro presenza: prometterle, o giurarle, che mai e poi mai ne avrebbe abbandonato la figlia, la sua sorellina.

Estatina si era fatta ancora più seria del solito.

«Sai, vero, quanto sia sacro il giuramento fatto a una moribonda? Come se fosse un voto. Vero o no?» aveva chiesto rivolgendo lo sguardo al sacerdote il quale, chiamato in causa, aveva pigolato un sì, pur non essendo del tutto convinto di essere nel giusto.

Poi però Domenico Ficcadenti si era intromesso.

«Moribonda chi?» aveva chiesto.

Lo sguardo di Estatina si era rivolto di nuovo a don Parigi che, rosso come un tizzone, aveva fatto intendere a gesti che poi avrebbe spiegato.

L’aveva fatto, vergognandosi e giustificandosi col dire che non c’era stato altro modo per scardinare il segreto della donna.

In ogni caso, aveva concluso Giovenca, moribonda o no, lei non aveva bisogno di tante manfrine per tener fede alla sua promessa. Aveva poi dato un bacio sulla fronte a Zemia e le aveva detto che, nel caso si fosse sposata, sarebbe diventata la sua dama di compagnia.

«Oppure viceversa» aveva aggiunto, con un azzardo che aveva messo in imbarazzo tutti quanti.

Perché, per realizzarsi quel “viceversa” era chiaro a tutti, persino a don Parigi, che ci sarebbe voluto un miracolo.

Premiata Ditta Sorelle Ficcadenti
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