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L’aveva detto la Forcola alla Ficcadenti la mattina di giovedì 3 febbraio, verso le dieci, poco prima di lasciarla sola con la Primofiore.
«La signora ha qualcosa che non va.»
S’era ben guardata naturalmente dallo spiegare che aveva dedotto ciò grazie all’esperienza che aveva fatto con le galline quando erano sul punto dell’arimortis: una strana immobilità in crosc, un tremore di tanto in tanto, lo sguardo vitreo che guardava senza vedere. Si poteva mollare anche un calcio, all’animale s’intendeva, senza che questi reagisse più di tanto. Fino al momento in cui non riusciva nemmeno più a tenere la testa alta e amen: se non era solo pelle e sangue era pronta per la pentola, se no finiva sulla pigna del letame.
«Che cosa?» aveva chiesto Giovenca.
E la Forcola aveva risposto con un’alzata di spalle, tenendo per sé il pensiero che forse suo padre aveva ragione: perché stava montando vento, prima di sera avrebbe sicuramente cominciato a boffare, e sulle ali delle sue invisibili frustate altrettanto invisibili malattie avrebbero portato con sé gli esseri umani più deboli.
La Ficcadenti le aveva poi chiesto se le famose gocce rilassanti fossero state somministrate sempre con regolarità.
Poi, rassicurata, l’aveva lasciata libera di andare, promettendo che avrebbe preso provvedimenti.
Nel frattempo, le aveva detto, che cominciasse ad aumentare la dose delle gocce.