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Il Geremia invece aveva assunto l’espressione del manzo dopo la mazzata fatale del beccaro: occhi fuori dalle orbite e lingua penzoloni.

Giusto così lo voleva la Giovenca, come se fosse in fin di vita, quindi disposto a tutto pur di salvare la pelle.

«Più che sposata» aveva ripreso, «legata ancora per certi versi a quello che fu il mio primo marito.»

Se c’era un primo, aveva fulmineamente ragionato il Geremia, voleva dire che ce n’era anche un secondo.

Il primo, stando alle parole della giovane, sicuramente morto.

Ma il secondo?

«Non c’è» aveva assicurato Giovenca come leggendogli nel pensiero. Il Geremia allora aveva retratto la lingua.

«Ma in un certo modo è ancora come se fossi legata al primo e non potessi liberarmene» aveva aggiunto.

O cristo!, era sfuggito al Geremia.

«Addirittura è come se fossi ancora più che sposata» aveva caricato Giovenca.

Dopodiché, vedendo che sul viso del giovanotto era calata un’infantile espressione di stupore, aveva deciso che il momento per farcirgli la testa con la bella storiella che s’era inventata era finalmente giunto.

Doveva sapere che il suo primo marito, un tenentino morto sull’Isonzo, l’aveva incatenata a una promessa, diabolicamente impegnandola a una imperitura memoria di lui con il perentorio ordine di non contrarre più legami terreni, pena l’esclusione da qualunque eredità. Nel qual caso lei si sarebbe trovata povera come mai lo era stata. Su tutto ciò, affinché lei non disobbedisse ai desiderata del defunto tenente compilati in articulo mortis con l’aiuto del cappellano militare, vegliava come un cane da guardia l’orribile Notaro comasco Editto Giovio, avvalendosi di spie e delatori che aveva a libro paga e che, Giovenca aveva affermato di esserne certa, non perdevano alcuna mossa di lei, per poi puntualmente riferire.

Occhi di spia, aveva rivelato Giovenca, ne aveva notati anche in quel paese nel quale si erano trasferite dietro consiglio di sua sorella Zemia, allo scopo di allontanarsi dall’incubo di una sorveglianza continua, asfissiante.

«Ma inutilmente!» aveva sospirato la giovane.

Fatta esperta da lunghi giorni di vita passati quasi in clandestinità, poteva dirsi in grado di fare nomi ormai, indicare persone.

Gli altri due merciai, per esempio, il Tocchetti e il Galli e rispettive signore, che di tanto in tanto andavano ad annusare senza mai comprare niente.

La Rebecca!

Sì, proprio lei, la perpetua del signor prevosto che, in quanto tale, non faceva che ubbidire a un istinto delatore e spione.

E il maresciallo Citrici? Non se l’era trovato forse, lui, e più di una volta, tra i piedi, come se fosse un caso?

E non gli era piuttosto venuto il sospetto che dietro quelle coincidenze ci fosse altro, magari la lunga mano del maledetto Notaro?

Il Geremia aveva esteso il capo, come se tutte quelle affermazioni fossero sberle.

Che vivesse in un paese di spie lo stava scoprendo adesso. E un pensiero, tanto malvagio quanto irresistibile, s’era fatto largo.

Che anche sua madre…

E il prevosto…

S’era ben guardato dall’esternare simili dubbi. Preso invece da subitaneo entusiasmo, arrossendo per l’orgoglio di aver individuato il modo per liberare la sua Giovenca dal giogo cui era sottomessa, aveva detto: «Rinunciamo all’eredità!» parlando per la prima volta al plurale e aspettando poi, come un cane da riporto, i complimenti.

Zemia aveva avuto un piccolo sobbalzo all’uscita del giovanotto. Giovenca, che invece avrebbe avuto tutte le ragioni per dare in smanie e tacciare di follia il Geremia, era rimasta calma.

«Credi forse che non ci abbia pensato anch’io?» aveva risposto.

«E allora…» s’era permesso il Geremia.

E allora, aveva interloquito Giovenca, fosse stato solo per lei, per loro, la cosa sarebbe di già stata fatta.

«Ma non posso fare a meno di considerare i diritti di chi ci seguirà» aveva affermato, lasciando in una certa confusione il Geremia.

«Cioè?» aveva infatti chiesto il giovanotto.

«I figli.»

Al che il Geremia era sembrato gonfiarsi poiché la prospettiva di ciò che significava aver dei figli, ma prima, e soprattutto, farli, gli aveva gonfiato il torace in un respiro che poi s’era bloccato per via di un nodo in gola.

Non c’era altro modo quindi per salvare capra e cavoli, a meno di non voler attendere la morte naturale del Notaro e sempre ammesso poi che, una volta morto lui, qualche suo collega, cane al pari di lui, non ereditasse quell’incombenza.

Geremia aveva atteso di capire.

Giovenca aveva assunto una postura da martire predestinata.

«Sposatevi!» aveva infine detto, dimenticando che era passata al tu.

«Chi?» disorientato il Geremia.

«Voi.»

«Io?»

«Certo.»

«E con chi?»

«Con mia sorella!»

E prima che il Geremia potesse alzarsi e fuggire terrorizzato dalla casa, gli aveva esposto i vantaggi di un matrimonio siffatto: l’eredità così restava a lei, vedova, sì, ma sotto lo stesso tetto insieme a lui.

Le apparenze erano salve, agli occhi del mondo nulla sarebbe cambiato.

Capiva?

Giovenca si era alzata, si era avvicinata a Zemia, le aveva messo le mani sulle spalle da dietro la sedia.

«Senza la mia cara sorella, tutto questo non sarebbe possibile. Siete d’accordo allora?»

«E lei?» aveva chiesto il Geremia riferendosi a Zemia che non aveva ancora spiccicato parola.

«Non chiede di meglio che vederci felici tutti e tre» aveva sibillinamente risposto Giovenca.

Parole che in un certo senso non erano prive di verità.

Premiata Ditta Sorelle Ficcadenti
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