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«Di fare il paraninfo ne ho abbastanza» disse don Pastore una volta rientrato in canonica.
Ogni tanto se ne usciva con quelle espressioni, roba imparata in seminario senza dubbio, che mettevano in imbarazzo la Rebecca, lasciandola sola con il compito di intuire se volesse qualcosa di particolare.
Uscito dalla merceria il prevosto era andato direttamente al cotonificio accolto a braccia aperte dal direttore che non sapeva più cosa fare col Geremia, deciso a sua volta a non uscire dal suo ufficio fino a che non avesse firmato la lettera di licenziamento.
«O voi o i carabinieri» affermò il direttore.
«Meglio io» rispose don Pastore, chiedendo poi di essere lasciato solo col giovane.
Don Pastore ne aveva dapprima squadrato il profilo, insolitamente ottuso, con il quale, anziché a parole, aveva sino ad allora respinto ogni tentativo del direttore di farlo recedere dalla sua decisione.
«Se ti dicessi che questa sera sei invitato a cena a casa Ficcadenti?» aveva sparato il prevosto senza tanti complimenti.
Il bozzo frontale del Geremia, termometro delle sue emozioni, era arrossito prima di ogni altro centimetro della sua pelle.
«Non è una balla?» aveva chiesto.
«Geremia!» aveva risposto don Pastore.
«Scusate» s’era immediatamente pentito il Geremia.
«Vatti a cambiare, va’» aveva consigliato il sacerdote.
E il giovane, senza dire altro, era uscito dall’ufficio del direttore a passettini strascicati, come se gli scappasse la pipì.
Per quel giorno, quindi, basta fare il paraninfo.
«E allora cosa vi faccio per cena?» chiese la Rebecca dopo aver ragionato su quel termine e sparando a caso nella massa delle proprie supposizioni. Tempo per preparare chissà che piatto non ne aveva mica tanto, erano quasi le sette della sera. Alle sette e trenta, mentre la perpetua metteva in tavola un pancotto di ripiego, la Giovenca rientrava a casa.
Non le sfuggirono i tre piatti apparecchiati sulla tavola.
Veniva da una giornata di nebbie e sospiri, e ne aveva il viso segnato: un’ombra scura, tutt’altro che spiacevole, sotto entrambi gli occhi.
«Ospiti?» chiese.
Zemia non si dilungò in inutili spiegazioni.
«È arrivato il momento di stringere i tempi» disse.
Giovenca sbuffò.
Di stanchezza, più che altro.
Per il resto sapeva che prima o poi quel passo avrebbe dovuto farlo. Era lei l’esca, a lei competeva dirigere il gioco e portarlo alla sua felice conclusione.
La sorellastra le lesse nel pensiero.
«Tolto il dente…» buttò lì.
L’occasione, tra l’altro, non poteva essere tra le migliori.
«Forse hai ragione» convenne Giovenca.
«Grazie» rispose Zemia.
«E a che ora arriva?»
«Sarà qui a momenti.»
«Vado a darmi una rinfrescata» comunicò Giovenca.
«E io finisco di preparare la tavola e la cena» concluse Zemia.