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Giovedì mattina, 10 febbraio, il maresciallo Citrici era lì, appostato fuori della merceria.
Non era solo.
Gli teneva compagnia il luogotenente Giuseppe Mario Varvarini del Regio Comando Provinciale di Como che, con auto pubblica messa a disposizione dall’Arma, aveva raggiunto Bellano attorno alle due di notte, l’aveva tirato giù dal letto dove s’era infilato non più di un’oretta prima dopo aver fatto il consueto giro notturno e l’aveva messo al corrente dell’incredibile novità: tra le anime del paese era possibile che si annidasse una potenziale assassina. Questo il motivo che aveva spinto il suo comandante a spedirlo con auto pubblica a Bellano a un orario tanto insolito. Il sonno al Citrici era passato immediatamente.
«Chi è mai?» aveva domandato.
«Tale Giovenca Ficcadenti» aveva risposto il luogotenente.
Il Citrici era sbottato in un sorriso amaro.
Caspita, non solo lavorava l’intera giornata ma perdeva anche la maggior parte della notte per controllare che nel suo territorio di competenza tutto filasse liscio e quello gli veniva a dire addirittura che sotto il suo naso dormiva, mangiava e faceva tutto il resto un’assassina!
«Non è possibile!» aveva sbottato.
«Ah no?» aveva ribattuto il collega.
Cosa ne diceva allora di una segnalazione giunta la sera prima presso il Comando per bocca di un notaro (uomo che quindi di legge ne sapeva, mica un visionario o un piffero di quelli pronti a dar credito al minimo pettegolezzo!), secondo il quale c’era più di una possibilità che si stesse tramando un lento avvelenamento ai danni di una povera malata residente dalle parti di Albate?
Il Citrici, Albate manco sapeva dove stava.
«Cosa c’entriamo io e la mia caserma?» aveva chiesto.
C’entrava perché di mezzo c’erano due complici (nomi e cognomi, il Notaro non aveva mica menato il can per l’aia), probabilmente amanti, incensurati e furbi perché l’arma del delitto era un veleno, (verificato, scritto nero su bianco, firmato da un certo professorone svizzero, il nonplusultra nel campo dei veleni) e i furbi a quella poveretta glielo facevano dare da una servotta che, secondo le informazioni, era notoriamente scema.
«E quindi…» aveva cominciato a capire il Citrici.
«E già!»
Bellano c’entrava perché pareva proprio che uno dei due complici fosse quella Giovenca Ficcadenti.
«Stando così le cose» aveva deciso il Citrici, «andiamo e l’arrestiamo.»
«E no!» aveva obiettato il Varvarini.
Gli ordini che aveva avuto non erano così.
Fermarla, per il momento, e trattenerla.
«Diciamo per accertamenti.»
Il tempo necessario affinché i colleghi di Como si appostassero intorno alla villa in attesa del complice che con la suddetta Ficcadenti si incontrava tutti i giovedì per fermarlo a sua volta e farlo confessare con l’aiuto della servotta che, per quanto scema, non avrebbe gradito l’alternativa di un’accusa di tentato omicidio o quantomeno di complicità.
Quindi, per non farsi giocare dalla Ficcadenti, i due erano usciti dalla caserma per appostarsi, ben nascosti, davanti alla merceria alle quattro del mattino.
«Conviene lasciare il cappello qui in ufficio» aveva consigliato il Citrici.
Il luogotenente non aveva compreso il motivo.
«Per via del vento» aveva spiegato il maresciallo.
Quando Giovenca uscì di casa, i due, scuri nel buio della contrada di fronte alla merceria, le lasciarono una decina di metri di vantaggio.
«Meglio evitare strepiti» suggerì il Citrici, «vediamo dove va e poi la fermiamo.»
La raggiunsero mentre attraversava il ponte sul Pioverna, nell’aria il suono del campanello che annunciava l’arrivo del primo treno per Lecco.