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Durante l’attesa in corridoio il naso della Stampina, da diafano che era, aveva assunto un colore rosso acceso. Prima di entrare nello studio del prevosto, e sotto gli occhi della perpetua, la visitatrice se lo asciugò sulla manica del cappottone.
«Stampina!» disse il sacerdote a mo’ di saluto, gli occhi fissi su quel naso che non solo sembrava sul punto di incendiarsi ma pareva anche essere raddoppiato come dimensione.
La donna tirò su. Il prevosto la invitò a mettersi comoda, togliersi il cappottone e soprattutto il foulard che la faceva somigliare alla Befana, ma la Stampina rifiutò: non voleva incomodare il signor prevosto, fargli perdere troppo tempo.
«Allora ditemi» la sollecitò il sacerdote.
«Ho bisogno del vostro aiuto» disse quella d’un fiato.
«Se posso» fu la risposta, «ben volentieri.»
La Stampina emise un profondo sospiro, deglutì, abbassò un po’ la sciarpaccia, si mise una mano sulla bocca poi la tolse, poi se la rimise. Le sembrò all’istante di aver perduto la facoltà di parola.
Paura.
Paura che il prevosto si rifiutasse di aiutarla o, peggio, la sgridasse per aver pensato che lui si sarebbe lasciato coinvolgere in una faccenda del genere.
D’altronde, chi altri se non lui?
Chiuse gli occhi e sparò.
«Mio figlio vuole sposarsi.»
Il prevosto credette di non aver capito bene. Oppure che la Stampina avesse alzato il gomito. Tutto sommato, quel naso così rosso…
«Il… Geremia?» chiese.
Domanda inutile.
«Chi se no?» rispose la donna.
Il prevosto si mise comodo sulla poltrona che ne ospitava certe riflessioni e la lettura del breviario. Dubitava ancora, sempre per via del naso, che la Stampina, in un momento di sconforto come poteva capitare a tutti, avesse bevuto e adesso ne patisse le conseguenze.
Andarci cauto quindi.
Piano piano.
«Ne…» attaccò, «ne siete sicura?»
Da quella poltrona aveva consigliato e sconsigliato matrimoni, alcuni addirittura li aveva combinati orientando le scelte di un bravo giovane verso un’altrettanto brava giovane. A meno che non fossero socialisti, categoria che peraltro in paese aveva riportato un risibile risultato alle ultime elezioni del novembre 1913, e ancora stava annaspando. Quasi tutti, uomini o donne, prima di esporsi in richieste di fidanzamento o nozze, erano passati da lì, per chiedere un parere. E lui, secondo scienza e coscienza, aveva sempre elargito consigli, ponderando le caratteristiche morali dei soggetti in questione e anche quelle di classe sociale e di censo che, purtroppo, avevano il loro peso nel buon andamento di una unione.
“Similia similis” era, in un certo senso, la sua linea guida. E non si peritava di usare, beninteso senza rivelarli, certi segreti di confessionale per influenzare le decisioni.
Non erano nemmeno rari i casi in cui prendesse lui, direttamente, l’iniziativa. Lungi dal ritenersi un paraninfo, avvertiva quando due anime erano fatte l’una per l’altra e si dispiaceva che non entrassero in contatto. In quei frangenti si dava da fare e, con il tatto che lo contraddistingueva, riusciva a combinare.
A lui si doveva, tanto per citare un esempio, l’ultimo in ordine di tempo, il matrimonio di Coretta Pralboini, figlia del delegato bellanese degli sturziani, e Leopoldo Giubinasco, idroterapista, allievo dell’illustre professor dottor Giovanni Cambroni, che nell’estate aveva lavorato presso l’istituto termale di Tartavalle. Giovane e pieno di energie, il Giubinasco aveva preso alloggio presso l’albergo Tommaso Grossi di Bellano, non importandogli di dover fare su e giù tutti i giorni. Voleva vita intorno a sé, gente con cui scambiare chiacchiere. Magari anche qualche avventura galante. Invece aveva trovato l’amore vero, e il primo ad accorgersene era stato proprio il signor prevosto: uomo dalla vista lunga, aveva notato gli sguardi che i due, durante la messa della domenica, si scambiavano. Non solo. Aveva sentito che erano fatti l’uno per l’altra. Di sua iniziativa, prendendo a scusa l’agone politico e le elezioni, aveva dapprima parlato con il padre di Coretta, mentendo venialmente sull’essere al corrente di un certo giovanotto molto interessato alla figlia. Poi, con la scusa di informarsi presso il Giubinasco se le acque solfatiche, ferruginose, magnesiache e litinifere delle terme potessero alleviare certe ipocondrie della sua perpetua, gli aveva chiesto pari pari se per caso avesse delle mire su quella giovane che si mangiava con gli occhi durante le messe domenicali.
Li aveva sposati l’ottobre precedente e da quell’unione si aspettava grandi cose, come in effetti fu.
Non si poteva quindi tacciarlo d’inesperienza in quanto a questioni di cuore e propensione al matrimonio. Proprio per questo aveva chiesto alla Stampina se fosse sicura delle parole che le erano uscite dalle labbra.
Perché, il Geremia…
Innanzitutto non aveva mai avuto una morosa, per dirla come parlava il popolo, né aveva mai manifestato intenzione di averla. Non aveva amici e tantomeno compagni. Finito il lavoro filava a casa e spesso, glielo aveva raccontato la Stampina, se non c’era niente da fare se ne stava a lungo seduto, con le mani tra le cosce, a guardare dalla finestra, ad aspettare che arrivasse l’ora di cena o quella di andare a letto. Non leggeva, parlava poco, camminava a testa bassa, come se temesse di salutare o di essere salutato. Più volte la Stampina gli aveva chiesto che fine avrebbe fatto quel figlio una volta che lei non ci fosse più stata, e lui non aveva potuto fare altro che invitarla ad avere fede nella lungimiranza del Signore.
Secondo la corrosiva sintesi cui il dialetto ricorreva per definire soggetti come lui, il Geremia era il prototipo del tambòr.
E adesso se ne veniva fuori con quella storia di volersi sposare! Ma era possibile?
«Eh, Stampina» insisté il prevosto, «ne siete sicura?»
«Come di essere qui.»
Risposta secca.
Ahi!, ragionò il prevosto.
«Quindi…» riprese.
«Quindi mi dovete aiutare» concluse la donna.
Fu allora che il sacerdote comprese e si rilassò sulla poltrona.
Ma certo, si disse.
Povera Stampina!
Chissà quanto aveva combattuto, quante parole aveva sprecato, quanto tempo perduto per convincere il Geremia che quella che gli era venuta in testa era la più peregrina tra le idee. Da ben altro pulpito dovevano cadere in quelle orecchie certe parole.
Dal suo.
«Ho capito» disse. «Mandatemelo domani, qui, in canonica. Vedrete che riuscirò a convincerlo che non è cosa per lui.»
A quell’uscita la Stampina si ritirò nelle spalle, sembrò quasi che le spuntasse la gobba.
«Scusate» disse, «ma forse non mi sono spiegata bene.»
«In che senso?» chiese il prevosto allarmato.
«Nel senso che vuole sposarsi davvero. E non con una qualunque.»
Con una che aveva visto come, dove e quando lo sapeva solo il Signore.
«Sennò ha detto che si butterà nel lago prima di Natale!»
«Ma è matto?»
«Matto?» ripeté la Stampina.
Altro che matto.
Che la stesse a sentire un momento.