60
Mai visto don Pastore così agitato.
Un po’ avanti e indietro per la cucina, poi seduto a tamburellare le dita sul tavolo, e poi, fermo impalato a sentire il minimo rumore, quindi via ancora, le mani dietro la schiena, a camminare su e giù che faceva venire il nervoso.
Tanto che la Rebecca, intenta a squamare sette o otto lavarelli, ne aveva già massacrati un paio.
D’altronde, con quel diàol lì che non stava fermo un minuto!
Cos’avesse poi da essere così nervoso…
Al suono del campanello, alle sei della sera precise, il prevosto si impalò, alla Rebecca scappò l’ennesima coltellata sbilenca e massacrò il terzo lavarello.
«Vado io» disse il sacerdote.
Ma da quando in qua il prevosto andava ad aprire la porta?
Roba de màt!
La perpetua, l’espressione contrariata, insorse.
«Gnà per idea!»
«Rebecca!» ribatté il sacerdote.
Voleva andare ad aprire così, tutta piena di squame e puzzolente di pesce?
«E alora?»
L’era forsì un pecà netà pès?
«Buona lì» ordinò il prevosto.
«So minga un càn» lo rimbeccò la perpetua.
«Buona lo stesso» ribadì il prevosto.
E uscì, chiudendole la porta della cucina quasi in faccia.
La Rebecca guardò i tre lavarelli martoriati e poi il quarto: l’occhio e la bocca semi aperta sembravano pregarla di non fargli fare la stessa fine dei suoi fratelli.
Col nervoso che aveva addosso, però, c’era poco da ben sperare.
«Tranquillo» gli disse allora.
Poi, come se camminasse su un tappeto di uova, si avviò verso la porta e l’aprì.
Appena appena.
Giusto per guardare nel corridoio vuoto e infilare la canapia nello spiraglio.
Annusò.
Quel suo naso che coglieva al volo l’odore del pesce mica tanto fresco, percepì senza ombra di dubbio odor di brillantina.
Uomo, quindi, quello che aveva suonato poco prima.