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Chissà come se l’era immaginata il Geremia quella giornata, chissà cosa si era aspettato che accadesse martedì 8 febbraio, giorno del suo matrimonio!
Nemmeno lui riusciva a capire cosa sarebbe dovuto capitare per renderlo memorabile e non simile in tutto a una delle tante mattine in cui si era dovuto alzare presto perché gli toccava il primo turno al cotonificio.
Chissà, forse che il sole dovesse essere già bello in cima al cielo per illuminare la piazza della chiesa alle sette del mattino. Oppure che all’uscita trovasse schierato un coro di angeli per augurargli ogni bene. Oppure che piovessero petali di rosa o tra i ciottoli spuntassero gigli bianchi.
Il Geremia non aveva fatto mostra della delusione, l’aveva tenuta per sé, sin dal mattino presto quando aveva aperto gli occhi nella buia umidità, odorosa di legno macerato, della sua camera. La Stampina, che aveva passato una notte insonne, l’aveva sentito armeggiare in cucina, sperando che quel suo andare avanti e indietro fosse segno di una resipiscenza per la quale non aveva smesso di pregare un minuto. Il Geremia invece non aveva fatto altro che tirare le sei della mattina, aspettando il campanile, poiché non disponeva di orologi né ce n’erano in casa, tranne quello che il suo vecchio custodiva gelosamente in tasca, fermo dal giorno in cui, anni prima, non l’aveva più caricato. Alle sei s’era avviato, appuntamento in casa Ficcadenti per indossare l’abito di Domenico Ficcadenti con il quale doveva presentarsi all’altare.
Durante la cerimonia si era mantenuto rigido come un baccalà, gli era uscito un sì come se confessasse una colpa. Il freddo che imperava nella chiesa e i fischi del vento avevano dato a ogni cosa un senso di fretta.
Ancora, la fantasia di dover uscire dalla chiesa per infilarsi immediatamente nel cotonificio era ritornata. Tra l’altro la cerimonia si era svolta senza nemmeno l’assistenza delle donnette abbonate alla messa prima: don Pastore aveva stabilito che la funzione doveva svolgersi a porte chiuse.
Il viaggio di nozze era consistito nel trasferimento dalla chiesa alla casa delle Ficcadenti. Brindisi niente, nemmeno un bicidrin in una delle tante osterie che a quell’ora erano già aperte.
Alla fine, una volta dentro casa, al Geremia venne un po’ di magone.
Non erano ancora le sette.
Giovenca e la novella sposa presero a comportarsi come se niente fosse accaduto. Sveltamente si cambiarono d’abito, indossando le divise di tutti i giorni, e invitarono lui a fare lo stesso.
O voleva cominciare la sua nuova vita e prendere confidenza con il suo nuovo lavoro vestito da sposo?
Il Geremia obbedì, silenzioso come un sasso.
Si cambiò, poi chiese cosa doveva fare.
«Per intanto» rispose Giovenca, «comincia a tirar giù le ante delle vetrine e poi apri la porta della merceria.»
Sempre con un po’ di magone che saliva e scendeva dallo stomaco, il Geremia eseguì.
La giornata scivolò senza altre sorprese. Nemmeno un bacetto, che il Geremia si era aspettato da un momento all’altro.
Dalla Giovenca, neh!
Niente invece, macché!
Rimase tutto il tempo nel localino dietro la tenda ad aspettare, secondo gli ordini, che capitasse qualcosa da fargli fare. Ma probabilmente era stata una giornata di scarso traffico, non era successo un accidente.
A sera la voglia di piangere del Geremia si fece corposa. Anche un’inconfessabile nostalgia della mamma.
Per fortuna, dopo aver riposizionato le ante di legno delle vetrine e chiusa la porta di accesso al negozio, la Giovenca gli disse che finalmente avrebbero festeggiato l’evento con una bella cenetta.
Il magone passò.
A quello si sostituì un’intensa emozione, confusa ed eccitante, come se il vento gli fosse entrato anche nello stomaco per scompaginargli i pensieri, quando il Geremia vide che la tavola era apparecchiata per due.
Per un solo istante ebbe il dubbio e il terrore.
Fu la stessa Giovenca a ridargli tranquillità.
La Zemia, poveretta, aveva assai patito quella giornata così intensa di emozioni e adesso aveva un feroce mal di testa.
«Sempre stata così» assicurò Giovenca.
Anche da giovane, anche da bambina.
Vergognandosene un po’, aveva pregato lei di giustificarla, di scusarla.
Sorbito un brodino, s’era ficcata a letto.
Nulla però vietava che loro due festeggiassero la fausta giornata.
Il Geremia si disse pienamente d’accordo.
«Così» aggiunse Giovenca, «parleremo un po’.»
D’accordo anche su quello il Geremia. Soprattutto perché la giovane aveva usato quel verbo come se intendesse ben altro.