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Sul candido manto di neve che aveva ricoperto il paese, pochi centimetri appena, c’erano ancora poche impronte umane alle nove di sera.
Tra quelle poche, inconfondibile, un’orma femminile, un piede di donna che aveva calzato una scarpa décolleté: l’avampiede grazioso e triangolare, seguito dal lussurioso scavo di un tacco alto.
Uscendo la mattina, Giovenca Ficcadenti non aveva immaginato che il cielo si sarebbe messo a neve e, una volta ritornata a Bellano ed entrata in casa, anziché essere felice come i chierichetti del prevosto, si lasciò cadere su una sedia come se fosse sfiancata.
«Com’era il tempo giù?» le chiese Zemia.
«Almeno non nevicava» rispose Giovenca.
Ma sia l’una che l’altra sapevano bene che il tempo era solo una scusa per rompere il silenzio e affrontare ben altro discorso.
«Novità?» chiese infatti Zemia.
Giovenca sospirò.
«Ancora no. Ci vuole tempo e pazienza» disse. «In ogni caso, se ci fossero sarei la prima a parlare, senza bisogno di essere interrogata.»
Zemia sorvolò sul velo di durezza che Giovenca aveva steso su quelle ultime parole.
«Attendo fiduciosa» rispose invece, non senza una certa ironia.
Poteva permettersela, visto che il coltello dalla parte del manico l’aveva lei.
Come i chierichetti del prevosto invece, benché fosse uno strato sottile sottile, quella neve aveva entusiasmato il Geremia.
La neve gli era sempre piaciuta. Quella sera, però, sentì di amarla particolarmente poiché gli avrebbe dato la possibilità di compiere un gesto di raffinata galanteria.
A mezzanotte, finito il turno di lavoro presso il cotonificio, s’ingobbì nel pastrano come per nascondersi da qualsiasi sguardo e, anziché verso casa, si diresse alla volta della merceria Ficcadenti.
Poiché non aveva altro a disposizione, usò le nude mani per liberare dalla neve i tre gradini che portavano all’ingresso della merceria.
Mentre spazzava, cacciando nel contempo occhiate di qua e di là caso mai qualcuno lo sorprendesse, non speculò più di tanto sulle impronte che Giovenca aveva lasciato rientrando poche ore prima.
Anzi, davanti all’ultima, prima di cancellarla agli occhi del mondo, le mandò un bacio silenzioso.
Poi si allontanò, felice come un bambino, le mani in tasca, la testa incassata, lo sguardo a terra a guardare i propri passi.
Appunto, quello.
Perché fu guardando i propri passi che la felicità di poco prima si guastò.
Le punte delle sue scarpe dirigevano verso casa, come quelle della donna.
Poteva solo significare che era uscita.
Dov’era andata quindi?
Perché?
Da qualcuno, forse?
E se sì, da chi?
Il Geremia tornò indietro.
Le deliziose scarpette della Giovenca lasciavano impronte inconfondibili. Ne riuscì a reperire qualche altra, fino allo sbocco di via Manzoni sullo stradone: da lì in avanti le scarpacce dei colleghi che erano usciti con lui dal turno avevano insozzato la strada. Quelle loro suole proletarie non avevano avuto alcun rispetto.
Confuso e caldo come se avesse in corpo una bottiglia di cognac, Geremia non si diede per vinto. Continuò a cercare, percorrendo su e giù tutte le contrade del paese, battendo la Pradegiana, spingendosi fino alla Calchera dove il manto di neve era ancora vergine, e sul lungolago, battuto a quell’ora da un’aria tesa e glaciale.
Alle due della notte, la Stampina, che l’aveva atteso in cucina, davanti a una tazza di brodo caldo il cui grasso si era ormai rappreso in superficie, uscì di casa senza nemmeno avvisare il marito.
Il custode notturno del cotonificio Nemone Rapinardi le disse che il figlio era uscito insieme con gli altri alla fine del turno. Alla donna tremarono le gambe, le venne il dubbio che il Geremia l’avesse combinata grossa.
Cosa poteva fare lei, così sola e disperata, schiacciata da quel cielo scuro che prometteva altra neve, circondata dalle finestre buie delle case dove la gente dormiva tranquillamente e con il pensiero che forse quel suo scombinato figlio avesse davvero dato seguito al progetto di gettarsi nelle acque del lago, se non attaccarsi al campanello della caserma dei Carabinieri e chiedere aiuto?