16
Tutte le mattine alle cinque il sagrestano Aristide Schinetti, quello affetto da “artrite tattica”, apriva il portone della chiesa.
Non si levava nemmeno il pigiama. Coprendosi con una giacchetta d’estate e un cappotto d’inverno, apriva e poi ritornava a letto riaddormentandosi pressoché immediatamente.
Le fedelissime della prima messa, la Stampina in testa, potevano così entrare in chiesa e recitare un rosario in attesa che, alle sei, il prevosto desse inizio alla funzione.
Sempre presenti, sempre quelle, tranne, naturalmente, coloro che il Signore aveva voluto chiamare a sé nel corso del tempo.
Il sacerdote, dopo il primo anno di prevostura a Bellano, aveva ragionato che tanta fedeltà, tanta abnegazione meritavano di essere riconosciute con un premio. Un piccolo premio o piuttosto un segno del suo benvolere, senza presumere di sostituirsi a quello che il Creatore avrebbe dato loro nell’aldilà.
La scelta del prevosto era caduta sul calicantus il cui profumo evocava le odorose, piccole lenzuola che avvolgevano i sonni innocenti dei neonati, coloro che si iniziavano al mondo ma, anche, aveva il dono di anticipare altri profumi, quelli variegati di una stagione di colori, la rinascita della primavera, in poche parole la resurrezione.
Un rametto a ciascuna di quelle donne che lo seguivano passo passo lungo l’arco dell’anno, con l’augurio di ritrovarsi ancora l’anno a venire.
Per le fedelissime, quel rametto di calicantus, insieme con la benedizione del prevosto, era il miglior regalo che potessero ricevere per il Natale. Quell’anno poi, con la guerra in corso e parecchi giovani lontani da casa, il piccolo dono nelle intenzioni del sacerdote avrebbe dovuto avere un significato in più, più profondo e sincero.
Sabato mattina, quattro dicembre, con un po’ di magone, il sacerdote, terminata la messa, aveva dovuto annunciare che, a causa di un atto proditorio e vandalico, la pianta era stata spogliata dei suoi rami migliori e messa a rischio di sopravvivenza, così che la loro intima cerimonia prenatalizia per quell’anno non avrebbe avuto luogo, benedizione a parte.
Dallo sparuto gruppo delle fedelissime si era levato un mormorio che il sacerdote aveva placato con un gesto della mano.
«Perdonate anche voi» aveva detto, «come già ho perdonato io.»
Nessuna aveva osato controbattere ma, una volta uscite dalla chiesa, le fedelissime erano corse a vedere lo scempio perpetrato ai danni della pianta, e i commenti, le maledizioni, assente il prevosto, s’erano sprecati.
Rebecca, dispensata dall’assistere alla prima messa per via delle faccende domestiche, udito il cicaleccio, era uscita senza nemmeno coprirsi e aveva preso atto, ammutolendo, dell’orrendo spettacolo.
Il prevosto nel frattempo, toltisi i paramenti, era uscito per l’altare maggiore, s’era inginocchiato e fatto il segno della croce, aveva imboccato il corridoio centrale per uscire e tornare in canonica.
All’altezza degli ultimi banchi, una voce lo fermò.
Dal buio emerse la Stampina, che non era uscita con le altre.
Gli si avvicinò.
«Io lo so chi è stato» disse sottovoce.
«Anch’io» rispose il sacerdote.