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I due non erano ancora rientrati alle rispettive dimore che la Rigorina era già informata.
Ci aveva pensato Ercole Trombeo, proprietario di tori da monta e della relativa stalla dove personalmente menava le vacche che dovevano essere impregnate e dentro la quale non lasciava entrare nessuno per far sì che l’operazione, priva di testimoni, mantenesse quell’alone di mistero che gli permetteva di essere l’unico celebrante esperto. Girovago per necessità, passava la maggior parte del tempo chiacchierando, visto che il più del lavoro lo facevano i suoi tori e, insieme con pochi altri, era un’affidabilissima gazzetta dei fatterelli che accadevano di qua e di là.
Una volta al corrente di ciò che il Trombeo aveva visto, e sicuramente riferito anche ad altri se lo conosceva bene, la Rigorina non aveva perso tempo e aveva messo sull’avviso la sua protetta della trappola dentro la quale stava cadendo.
«Mia cara Giovenca!» aveva esordito quando l’aveva convocata per metterla al corrente che il giovanotto dal quale si era lasciata tranquillamente palpeggiare altri non era che uno dei numerosi figli di Esebele Trionfa, detto Sanguìn.
«E be’?» aveva chiesto Giovenca con voce di beata innocenza.
Rigorina l’aveva fatta accomodare nella sua cucina prima di spiegarle che razza di bestia d’uomo fosse l’Esebele, padre di sette o otto figli di cui due sicuramente venduti ad artigiani del comasco per farne, più che apprendisti fabbri o muratori, veri e propri schiavi. Tra loro appunto il Novenio, che invece era stato regalato al parroco affinché ne facesse un sacerdote, visto che sin da giovane aveva manifestato una singolare attrazione per la chiesa. In realtà dentro la chiesa aveva imparato soltanto a sgraffignare ostie e vino per riempirsi lo stomaco in perenne gorgoglio e abituandosi al bere che ne esaltava le fantasie. Spesso, esagerando con il vin santo, il Novenio si addormentava e trascorreva la notte su un pancaccio della sagrestia senza che in casa qualcuno si preoccupasse della sua assenza. Vedendolo così assiduo, il parroco ne aveva frainteso le intenzioni e, dopo averne parlato con l’esecrabile genitore, aveva ottenuto senza alcuna fatica il permesso di avviarlo al seminario. L’avventura di Novenio era finita con l’incontro con i primi versi di Gabriele D’Annunzio per la disperazione del parroco che era stato duramente ripreso dal rettore del seminario per l’incauta scelta. Per niente invece si era disperato l’Esebele che gli aveva detto come, una volta usciti di casa, nessuno dei suoi figli poteva farvi ritorno: che s’arrangiasse a campare la vita come faceva lui, il cui unico impiego stabile era quello di rispondere, quando ne aveva voglia, alle chiamate di quei coltivatori che avevano bisogno di un paio di braccia stagionali o di allevatori che necessitavano di qualcuno che sgozzasse senza tante remore tori, manzi o vitelli.
Sbattuto fuori casa senza arte né parte e posseduto dall’idea d’essere poeta, il Novenio aveva imboccato la strada giusta per diventare lo scemo dei dintorni.
Poteva uno così mettersi in testa di sposare una bellezza come Giovenca?
E Giovenca poteva illudersi che con uno così avrebbe avuto tutto quello che le sue grazie potevano guadagnarle?
Prima di rispondere la ragazza aveva contato fino a dieci e in quell’arco di tempo alcune cose le erano risultate particolarmente chiare. Un consigliere lungimirante e d’esperienza come la Rigorina le faceva troppo comodo, disattendere i suoi pareri non le avrebbe giovato. Inutile spiegarle come l’amore per la poesia fosse entrato anche nella sua vita: troppo pratica, la perpetua, troppo materiale e ignorante per volare così in alto. Comoda però, dal momento che ragionava per conto suo lasciandole tutta la libertà di godere la passione. Così, per proprio tornaconto, le aveva dato ragione decidendo di mettersi nelle sue mani e, allo stesso tempo e di nascosto, in quelle del poeta Trionfa.
Giusto per uno scrupolo, aveva poi chiesto alla Rigorina in che modo fosse venuta a conoscenza dei suoi incontri col Novenio.
«La campagna ha mille occhi, anche se non sembra» aveva risposto la perpetua.
Da quel momento quindi gli incontri col Trionfa erano avvenuti nel fitto di un bosco.
Il giovane nel frattempo, avendo finito di saccheggiare il Primo Vere e il Canto Novo, aveva cominciato suo malgrado a comporre versi propri. Scalcinati e banali perlopiù, vergognose imitazioni di quelli dannunziani. Infine aveva prodotto una lirica intitolata Alla settembrina Dea che, nonostante la fantasia che s’era fatto, aveva dovuto recitare da solo al cospetto di un uditorio di pioppi. Era infatti il pomeriggio del giorno in cui, grazie allo strenuo impegno di Rigorina, Giovenca aveva incontrato presso la canonica di Albate il suo futuro marito, Ireneo Coloni.