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«Chi è?» chiese don Pastore dopo aver sentito il campanello della canonica.
Era mercoledì 2 febbraio, le dieci del mattino più o meno. Da un’oretta il prevosto, sfaccendato, passeggiava tra lo studio, il corridoio, la cucina. Non aveva niente da fare sino alla sessione di confessioni del pomeriggio e si stava torturando la coscienza attorno alla stranezza del matrimonio tra il Geremia e la Zemia, chiedendosi se avesse agito da bravo pastore di anime lavandosene le mani come Ponzio Pilato e lasciando che a prendere quella patata fosse il suo coadiutore.
Ne avesse avute delle buone ragioni ostative, si sarebbe rifiutato di celebrarlo, l’avrebbe addirittura impedito. Ma non ne aveva. Solo dubbi, sospetti, buoni per scriverci un romanzo che le serve avrebbero letto durante le ore del riposo.
Ma lui era un servo del Signore, non un compilatore di storie buone a istupidire le menti della gente.
E col coadiutore…
Be’, ecco, col coadiutore si sarebbe messo in pace facendosi confessare da lui, come non aveva mai fatto, e chiedendo il suo perdono.
La Rebecca invece stava preparando le verdure per un bel minestrone. Sminuzzava alacremente patate, carote, foglie di verza e gambi di sedano un po’ ingialliti, le verdure insomma che la stagione consentiva. Lavoro automatico, come tutti quelli che eseguiva, frutto di anni e anni di minestroni eccetera. Avrebbe potuto farlo anche a occhi chiusi, con la mente libera di occuparsi d’altro. Come infatti stava succedendo in quel frangente, con il sacerdote tribolato alle sue spalle ch’l stàva minga fermo un menùt.
Col coltello spostò la tendina della finestra sopra l’acquaio.
«La Ficcadenti» rispose.
«Quella bella o quella brutta?»
La perpetua si meravigliò della liberalità di linguaggio del sacerdote.
«La brutta» rispose.
«Fa lo stesso» disse il prevosto.
Bella o brutta che fosse, qualunque cosa volessero, sia l’una che l’altra si dovevano rivolgere al coadiutore. Lui non voleva averci più niente a che fare, se n’era già lavate le mani e non voleva ripetere il gesto.
«Dite che non ci sono, che sono ammalato, che sono partito per la luna! Dite quello che volete ma mandatela via, sciò!»
Impettita, compresa nell’alto compito che le era stato assegnato, la Rebecca partì e si fece sulla soglia della porta, i pugni ai fianchi.
«Il signor prevosto non può ricevere. Al ghè minga. Per qualunque necessità rivolgersi al signor coadiutore» annunciò.
«E dove lo trovo?» chiese Zemia.
La Rebecca avrebbe potuto indicarglielo con un semplice gesto del braccio: stava lì, nella casa a lato della canonica.
Però…
Si sapeva mai che magari a quello sgorbio lì le scappasse qualche parola che l’aiutasse a capire cosa stava succedendo.
«Vi accompagno io» disse.
Niente, invece, il ragnetto non fece parola.
Giunta davanti alla porta di casa del coadiutore, si rivolse alla Ficcadenti.
«Momènt, prego.»
Entrò sola, per avvisare il coadiutore della visita che lo attendeva e anche che, poi, lo attendeva il signor prevosto per sapere cosa volesse da lui quella che stava aspettando di fuori.
Mica vero.
Mossa strategica.
Se mai poteva sempre giustificarsi col dire al sciòr prevòst che pensava si fosse dimenticato di dirglielo.
Uscendo, seria come un cerimoniere: «Il signor coadiutore vi spèta» disse.
E stette ferma a guardare la porta che si chiudeva sullo scanchignato personale della Ficcadenti.
Ne uscì all’incirca tre quarti d’ora più tardi, accompagnata dal suono delle campane delle undici. A seguire, a passi svelti, uscì anche il coadiutore, diretto alla canonica.
«Chi è?» chiese ancora il prevosto che si era seduto in cucina e sfogliava distrattamente una copia del “Corriere dei Piccoli” con in prima pagina un’avventura a fumetti di Italino e del suo nemico austriaco Otto Kartofel.
«Il coadiutore» rispose Rebecca cercando di mostrarsi il più sorpresa possibile.
Il coadiutore, certo.
Come da ordine ricevuto.
Per riferire che Zemia Ficcadenti, facendosi portavoce di Geremia Pradelli, aveva chiesto se lui poteva sposarli il prossimo martedì 8 febbraio, anche la mattina presto, le sei, le sette, vedesse lui.
A loro, aveva detto, non interessavano i fasti mondani del matrimonio, ma il matrimonio in sé, quale sacro vincolo.
Don Pastore lasciò cadere a terra il “Corriere dei Piccoli”, non fece commenti.
Ci pensò la Rebecca.
«Di venere e di marte né si sposa né si parte.»