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Don Pastore la sentì arrivare.
Anzi la vide, sbirciando dalla finestra della sua camera. Si tirò un po’ indietro. Adesso toccava alla Rebecca agire secondo istruzioni.
Infatti.
«Al ghè minga!» disse la perpetua rispondendo alla richiesta della Stampina.
«E dov’el?»
«Non lo so.»
Brava Rebecca, bella risposta! Meglio dire che non sapeva dove fosse piuttosto che tirare in ballo qualche malattia.
«Si drè a vedè de fam crepà?» reagì la Stampina.
A quel punto la perpetua avrebbe dovuto chiudere la porta della canonica e buonanotte ai suonatori!
La Stampina però scoppiò in lacrime. Sincere, nessuno lo metteva in dubbio. Sincere, ma ricattatorie. Un animo sensibile non poteva fingere di non vederle.
La Rebecca infatti, che oltre all’animo sensibile aveva anche voglia di saperne di più, colse al volo l’occasione.
Povera donna, venite dentro!
«Ma cos’è successo?» chiese.
La Stampina crollò sulla sedia della cucina. Per un lungo minuto boccheggiò.
Era successo tutto nel giro di poche ore e anche una fibra dura come la sua non aveva retto alla prova.
«Gli ho dato tutta la giornata per digerire il rifiuto di quella là» cominciò a dire la Stampina.
“Mument!” pensò la Rebecca.
Chi era lui, chi era quella là.
«Lui, il Geremia, mio figlio, l’altra la Ficcadenti.»
«Bon.»
Avanti allora.
Per tùt el dì era rimasto lì nella sua cameretta, vestito col vestito del suo vecchio, niente lavoro, scemo di un rimbambito, guardava in su il soffitto come se fosse un cinema…
«O poarèt! Malàa?» chiese la Rebecca.
Machè malàa!
Magari!
Stùpit che gnanca un merlo sòta la primavera!
«A ogni buon conto mì…»
Lei, la Stampina, l’aveva lasciato in pace col suo dolore che tanto quei mali lì così privati c’era niente da fare, dovevano passare per conto proprio. Di andare al cotone, niente, giornata persa. Va be’, passi, s’era detta, anche se quel mese la busta sarebbe stata bella magra. Di tanto in tanto aveva buttato l’occhio nella cameretta, vedere se per caso fosse morto.
No, perché respirava.
Ma stava fermo immobile come quei negri delle figurine dei dadi.
«I fachini!» suggerì la Rebecca.
«Pròpi.»
Fare per fare lei aveva fatto finta di niente. Però verso sera aveva messo là un po’ di frattaglie di pollo che anche suo marito aveva dato segni di vita e, siccome il Geremia quando faceva quella cosa, era capace di leccare fin la padella, aveva scommesso che sarebbe arrivato a tavola.
«E invece?»
Invece no.
«E i busècc?» si informò la perpetua.
A lei non piacevano, suo marito non poteva mangiarle…
«S’eri de fà? Ghi ò dà ai gàt!»
«Pecàa! Peccato!»
Peccato sì, comunque, frattaglie a parte, poteva mica lasciar lì suo marito a dormire per la seconda notte di fila sulla sedia.
«E no» approvò la Rebecca.
«Al ciàmi, gh’el dìsi, rànges, el me rispònt.»
«Vilàn!»
Più che villano!
Va ben le pene d’amore, ma un padre è sempre un padre, anche se incartapecorito.
Quindi era andata in camera, si era messa ai piedi del letto e gli aveva detto di smetterla di fare l’opera lirica, che di donne c’era pieno il mondo e prima o poi sarebbe saltata fuori anche quella giusta per lui.
Allora il Geremia le aveva detto che lui la donna giusta l’aveva già trovata.
«La Ficcadenti!» scappò alla perpetua.
«C’è in giro già la voce?» si allarmò la Stampina.
«No.»
Però sì, proprio la Ficcadenti che il Geremia s’era ficcato in testa dopo averla vista sapeva solo il Signore come dove e quando.
Poi, con una faccia che sembrava parlasse con gli angeli, bisognava vederla!, le aveva detto che prima o poi, sicuramente prima di sposarsi, avrebbe dovuto portarla in casa e fargliela conoscere.
«La Ficcadenti?» chiese la perpetua.
«Pròpi!» confermò la Stampina.
Però…
Su quel però alla Stampina vennero nuove lacrime.
Tutta una vita vissuta a sacrifici per tirar su quel figlio deficiente, col peso della casa e del marito sulle spalle, il pensiero del bilancio che non quadrava nemmeno a febbraio, le notti passate ad agucchiare per rivoltare giacche e pantaloni che adesso, a furia di pungersele, aveva le dita che sembravano ricoperte de la pèl de un sciàt!
E tutto per sentirsi dire che però quella casa faceva un po’ schifo e non era adatta a ospitare una signora come la Ficcadenti.
«Anche il papà…» aveva detto il Geremia.
«Anche il papà cosa?» gli era saltata in testa lei.
Insomma anche lui faceva mica un bel vedere, cattiva impressione se una non sapeva il perché e il percome, a trovarselo così davanti damblè!
«Alòra sò de fà? Tràl via?» gli aveva chiesto lei.
«Magari dire che non è il papà» aveva risposto il Geremia.
«L’è mia posìbil!» fece la Rebecca.
Invece sì.
E mica era finita.
«Se rèndet cunt…» aveva chiesto lei.
Ma si rendeva conto della bestialità che aveva appena detto?
Fingere che quello lì, colui che l’aveva messo al mondo, anche se adesso aveva la vitalità di un sasso, non era più suo padre?
Risposta?
«Dàghen un tài.»
«Davvero?» chiese la Rebecca.
«Pròpi» confermò la Stampina.
E poi il Geremia aveva continuato a dire, sempre così, neh?, fermo immobile seduto sul suo letto, che in fin dei conti sia lei che il sasso la vita l’avevano goduta, proprio così, goduta! goduta chi che cosa quando e dove?, che sberle che gli avrebbe dato, ma insomma via, goduta e invece lui l’aveva ancora tutta davanti e gli sembrava giusto e ragionevole cogliere le occasioni senza che nessuno lo ostacolasse, soprattutto loro genitori che per via del sentimento dovevano essere solo contenti del suo bene e, se questo costava qualche sacrificio, amen.
«E così sia» rispose la perpetua per far pendant.
Dopodiché silenzio su entrambi i fronti.
Il Geremia era tornato a guardare il cinema che vedeva sul soffitto.
La Stampina invece s’era sentita calare addosso un silenzio sconosciuto.
La Rebecca aggrottò la fronte, segno che non capiva.
«Voi» si spiegò la Stampina, «quante volte dovete stare zitta per buona creanza o perché non è il caso di parlare ma avete la testa piena di parole?»
Almeno dieci volte al giorno, sarebbe stata la risposta della perpetua se avesse avuto il tempo di darla.
«Bon» disse la Stampina.
A lei era successo esattamente il contrario.
Perché le era venuto il pensiero che a quel figlio, per tirarlo così cretino, dovessero aver fatto qualcosa, una magia o giù di lì.
A quell’uscita, la Rebecca ebbe un sussulto.
«Se ghè?» chiese la Stampina.
«Niente» ribatté secca la Rebecca.
Ma era diventata smorta come il latte, la Stampina l’aveva ben visto.
«Come niente?»
«Se ho detto niente…» ribadì la perpetua.
Poteva mica dirle che le era venuto in mente el diàol!
Che, si sapeva, usava tutti i travestimenti possibili pur di compiere le sue malefatte. E travestirsi da Giovenca Ficcadenti era la maniera giusta per far andare in un brodo di giuggiole un tamburo come il Geremia.
Passi però il Geremia.
Ma il sciòr prevòst?
Possibile, lui che el diàol doveva conoscerlo tanto bene e avere anche i mezzi per scascigarlo, che si fosse fatto ingannare al punto da lasciarlo solo, e lì in canonica!, una bella mezz’ora col Geremia in modo che lo potesse imbesuire ben bene con le sue magie?
Che scema ad aver pensato ai vermen!
Magia nera!
Perché, adesso che ci rifletteva bene, anche il giorno del suo tragico viaggio a Monza lei non l’aveva persa d’occhio nemmeno un attimo la Ficcadenti ma quella in un istante era seduta sulla carrozza e l’istante dopo stava già menando le tolle fuori dalla stazione.
Più magia di così!
La Stampina intanto aveva ripreso a parlare. La perpetua discese dalla nuvola dei suoi pensieri neri.
«Ah sì?» disse tanto per far capire che non s’era perduta una parola.
«Capito la furba?» affermò la Stampina.
Cioè la Ficcadenti.
Perché, visto che il Geremia non le rispondeva che scemate, che le facevano venire la voglia di spaccargli la testa per vedere se c’era dentro qualcosa, lei era filata dritta come una “i” da quella là per avere spiegazioni belle chiare.
Ma quella là non c’era!
O almeno così le aveva detto quello sbaglio della natura che diceva di essere sua sorella ma chi ci credeva.
La Rebecca guardò il calendario, ma tanto lo sapeva già.
Giovedì.
Arricciò il naso come se sentisse un cattivo odore.
Zolfo, forse.
«Così sono venuta qui perché se il signor prevosto non mi aiuta io non so cosa fare» concluse la Stampina.
«Ma il prevosto non c’è, ve l’ho detto» confermò la Rebecca trattenendosi dal guardare il soffitto della cucina sopra il quale stava la stanza del sacerdote, probabilmente immerso nelle preghiere che gli avrebbero dato la forza per scascigare el diàol dalla canonica e anche dal paese.
«E allora aiutatemi voi» supplicò la Stampina.
«Io? E come?»
«Appena lo vedete metteteci una buona parola.»
La Rebecca si sentì come se l’avessero incaricata di salvare il mondo.
«Andate in pace» disse, esagerando un po’.