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“Ah, bravo! Bravo sciòr prevòst!” pensò la Rebecca.

Fu, appunto, solo un pensiero, perché non avrebbe osato ribellarsi così apertamente al suo superiore.

Nell’animo, però, non fu d’accordo.

Per niente!

’Ndem, allearsi col diàol!

Tuttavia don Pastore l’aveva messa giù così bene, l’aveva spiegata così chiara che non si poteva dargli torto: l’unica che potesse ridurre il Geremia a più miti consigli era la Ficcadenti.

Che però l’era el diàol.

Senza parlare, la Rebecca guardò il sacerdote.

E, pur se impercettibilmente, questi abbassò lo sguardo.

Don Primo Pastore non aveva paura di niente e nessuno, neanche del diàol, ma aveva soggezione della sua perpetua quando questa metteva su una certa ghigna che le aveva visto solo in un paio di occasioni.

La prima era capitata nella primavera 1912 quando, sbucando da chissà dove, era piombato in paese un attivista socialista, mezzo italiano e mezzo svizzero o tedesco, che si era messo in giro per le contrade a vendere un opuscolo intitolato L’uomo e la divinità a firma di un certo Benito Mussolini. Passando di casa in casa per piazzare la sua merce il soggetto in questione aveva suonato anche in canonica.

Sbirciatolo dalla finestra, don Pastore le aveva proibito di farlo entrare.

«Propaganda l’ateismo» aveva sussurrato.

La Rebecca aveva allora messo su quella ghigna.

«Lo faccio entrare eccome!»

Il prevosto aveva tentato di obiettare ma le parole gli erano morte in bocca davanti al viso della donna, infiammato, teso al punto che si vedeva lo scheletro del cranio. Se il mezzosangue non era uscito dalla cucina della canonica, dopo una mezz’ora, convertito al cristianesimo, l’aveva fatto quantomeno privo della sua triste propaganda, che era finita tutta nella stufa.

La seconda volta era successo verso la fine del maggio 1913 e, ogni volta che il prevosto ci pensava, non poteva fare a meno di ricordare il miracolo della pesca miracolosa, scusandosi subito dopo con l’alto dei cieli. Era stato quando un suo collega, conosciuto in seminario, il ticinese don Bentitrovo, monsignore di curia al servizio del vescovo di Como Alfonso Archi, aveva deciso di rendergli visita e gli aveva espressamente chiesto di fargli trovare per pranzo niente altro che un bel piatto di agoni in carpione. La pescivendola Cancrena, cui la Rebecca s’era rivolta come suo solito, aveva ricusato la richiesta di quei pesci: erano notti che suo figlio Spartaco non tirava fuori nemmeno la razza dalle acque del lago. La Rebecca aveva messo su la sua ghigna e aveva fatto chiamare il giovanotto: gli ordini del sciòr prevòst non si discutevano, si eseguivano!

Com’è come non è, lo Spartaco, dopo una notte passata a madonnare in mezzo al lago, era riuscito a mettere insieme il pesce richiesto.

La terza volta era successo pochi minuti prima, quando la Rebecca era entrata senza bussare nella sua stanza e gli aveva detto che giù di sotto c’era bisogno di lui.

«Ma se vi ho detto che non c’ero per nessuno!» aveva protestato il sacerdote.

Ed ecco che sul volto della perpetua era comparsa quella maschera.

Lei non voleva avere sulla coscienza nessuno! Non voleva che dei bravi cristiani finissero a patire la fame oppure a cercare l’elemosina, pòra gènt che già così com’era stava già scontando in Terra i propri peccati, che poi, che peccati potevano aver mai combinato…

«Va bene, va bene» l’aveva interrotta don Pastore ed era sceso in cucina per trovarsi faccia a faccia la Stampina che l’aveva messo al corrente delle novità.

Una volta informato, il prevosto aveva chiesto qualche minuto per ragionare.

Non poteva certo negare che con quel giovanotto aveva già sbagliato calcoli in un paio di occasioni e, se voleva mantenere un poco di credibilità, sarebbe stato opportuno non fare più passi falsi: considerata la situazione, aveva valutato che quella era l’occasione buona per toppare la terza o quarta volta che fosse.

Quindi aveva lanciato la proposta, infiocchettandola per bene coi suoi sicuterat.

Quando don Pastore levò di nuovo gli occhi sulla Rebecca, costei non aveva ancora mutato espressione.

Brutto segno.

«Cosa c’è?» chiese il prevosto.

«C’è che l’è giovedì!» lo informò la perpetua.

Inutile dirsi cosa significava.

Ma la Rebecca preferì essere didattica.

«Quindi o lo lasciamo lì dal direttore fino a domani o chiamiamo il signor maresciallo o…»

«Oppure…» la interruppe il signor prevosto.

Oppure si poteva chiedere all’altra Ficcadenti…

«A quella brutezza?» interloquì la Rebecca.

Il prevosto lasciò correre.

… che intervenisse parlando a nome della sorella per far sapere al Geremia…

«Che cosa?» intervenne di nuovo la Rebecca.

«O benedetta donna, un àtim, no?» la zittì il prevosto.

Mica era semplice ideare una cosa che convincesse il Geremia, crapa de lègn!, a recedere dalla sua decisione e a tornare a casa.

«Magari…» insisté la perpetua.

«Ancora!» si innervosì il prevosto.

«Magari un invito a cena» sparò la Rebecca.

Don Pastore la guardò.

«Perché no?» disse.

«Visto!» ribatté la perpetua.

L’unico ostacolo stava proprio in quella brutezza, come l’aveva appellata la Rebecca. Niente nel suo aspetto lasciava molto spazio alla speranza che collaborasse.

«L’abito non fa il monaco» ammonì tuttavia don Pastore, e la indovinò.

Toccò allo stesso prevosto farsi ambasciatore della proposta.

Solo dal suo pulpito potevano cadere parole siffatte, aveva chiosato Rebecca, profetica pure lei.

Furono parole che uscirono defilate dalla bocca del sacerdote, senza nemmeno il bisogno di farsi ospitare nel retrobottega della merceria, visto che quando entrò, poco dopo le cinque del pomeriggio del 13 gennaio, non c’erano clienti.

«Fatelo per quel giovane, per la sua famiglia» concluse don Pastore, «e anche per me.»

Gli avrebbe consentito di guadagnare un po’ di tempo per pensare a cos’altro inventarsi per riportare il giovanotto sulla retta via.

Zemia non solo accettò di buon grado la proposta, ma addirittura ribatté chiedendo perché non dare corpo all’invito quella stessa sera.

«Faremo una bella sorpresa alla Giovenca.»

E a don Pastore, felice per l’inaspettata facilità con cui aveva risolto momentaneamente l’impasse, sfuggì una specie di sorriso che nacque e morì in un amen sul viso di Zemia Ficcadenti.

Premiata Ditta Sorelle Ficcadenti
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