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Polmonite ab ingestis.
Diabetes mellitus.
Cor pulmonaris.
Onuxgrufosis.
Gutta.
«O gut, come dicono i colleghi d’oltremanica. Tre giorni, e avremo un bel cadavere e di nuovo un letto libero.»
A parlare così, senza badare agli errori e senza che nessuno glieli facesse notare, era stato il professor Gneo Pompeo Agognati, un trombone di moglie elvetica, direttore del reparto di medicina interna dell’ospedale San Severo, che teneva il piede in due scarpe.
Il primo in Italia, a Como, nelle corsie del San Severo, dove la sua massima preoccupazione era quella di non sporcarsi le mani e men che meno contrarre qualche morbo strano, dalle quali cose si teneva alla larga delegando ai suoi assistenti le visite, ma assumendo come sue le conclusioni diagnostiche cui questi giungevano per quindi declamarle in corsia durante il quotidiano giro che aveva la pompa di un corteo reale.
Il secondo piede invece lo teneva in Svizzera, a Locarno, presso la clinica A la bonne santé, sorta per iniziativa della moglie Hagnizia (gi enne duro), che aveva impiegato così il cospicuo patrimonio lasciatole dal padre. Pure lì Gneo Pompeo non si occupava di diagnosi e terapie. Sin dai primi tempi la moglie, che ne conosceva la sconfinata ignoranza, gli aveva impedito di prendere parte alla vita di corsia: il personale medico aveva voluto selezionarlo lei, e aveva preso solo i pezzi migliori sul mercato. Il Gneo invece le serviva come richiamo per le allodole italiane, réclame vivente della bontà della sua clinica, le cui tecniche all’avanguardia, i cui pregi, la cui impeccabile assistenza andavano zifolate nelle orecchie di tutti coloro che, avendo di che spendere per essere curati comme il faut, avevano avuto, a detta dell’Hagnizia, la sfortuna di capitare in un hôpital italien. Il Gneo si era ben volentieri assoggettato a quel compito di sanitario transfrontaliero e l’amministratore della Bonne santé, tal Marivald, era molto soddisfatto del suo agire poiché tra imprenditori, negozianti in coloniali, orefici, farmacisti, bancari e cambiavalute, albergatori, agenti di cambio, fabbricatori di stoffe in seta e mediatori della stessa, il Gneo Pompeo portava mensilmente un buon numero di abbienti ricoverati.
«Onfalocelis» aveva aggiunto, alla già preoccupante lista di malanni, Gneo Pompeo Agognati notando il gesto di un assistente che disegnava una semiluna nell’aria, come se il soggetto allettato fosse in gravidanza, e spiegando ai presenti come sotto il lenzuolo si celasse anche una voluminosa ernia addominale.
Poi era passato oltre, lasciando il Notaro Editto Giovio, titolare della lista degli acciacchi testé citati, in una specie di sonno che ogni tanto si interrompeva con uno sguardo catarroso.
Poco più tardi, terminato il giro e chiuso nel suo studio, si era sottomesso all’inevitabile burocrazia che avrebbe dovuto consistere nella revisione critica delle cartelle dei suoi ricoverati: in realtà, pur minacciando i suoi assistenti che di ogni errore avrebbero pagato il fio, non ne aveva mai segnalati, poiché si limitava a dare una scorsa ai fogli, curioso dell’anagrafe dei nuovi e firmando senza pensieri là dove serviva.
Era stato così che, la mattina del secondo giorno di ricovero presso il San Severo, si era accorto del Notaro Editto Giovio.
“O bestia!” s’era detto.
Tra i suoi ricoverati c’era un Notaro, e nessuno l’aveva messo al corrente!
Ed era proprio quello cui, con nonchalance, aveva dato poco prima tre giorni soli di sopravvivenza.
Se sua moglie Hagnizia avesse saputo…
Ma non c’era pericolo.
Gneo Pompeo in quei casi tirava fuori tutta la sua abilità e, com’era abituato a pensare, doveva ancora nascere, e poi ammalarsi, il paziente in grado di resistere alle sue lusinghe.