143
«Depositato presso l’ufficio del Registro e del Catasto di Como nel corso del mese di agosto 1915 e in copia conforme presso lo stesso comune di Como nel mese di settembre» concluse il maresciallo Citrici, cui il Messeneri lasciò l’onore e l’onere di informare Giovenca Ficcadenti dei guai in cui s’era cacciata.
«Tentato omicidio… maltrattamenti… violazione continuata di proprietà privata…»
Anche la giovane, come il suo amante, era rimasta sconcertata alla rivelazione circa la proprietà privata.
Il Citrici le aveva nuovamente snocciolato la poesia spiegandogliela così come aveva sentito fare il Messeneri con il Novenio: a garanzia del futuro delle sue proprietà, il maggiore Coloni l’aveva ceduta al Notaro mantenendone l’usufrutto sino a una morte che certo non s’era aspettato così tempestiva.
Ma non era il caso di continuare quella conversazione proprio sul ponte dove tra il freddo che scendeva dalla valle e il vento che continuava a soffiare sul lago c’era il mezzo di prendersi un malanno.
Meglio andare in un altro posto.
«E dove?» chiese Giovenca.
Toccò al Messeneri intervenire.
«Prima di tutto a casa vostra, per darvi modo di prendere i vostri effetti personali. E, a tal proposito, vi consiglierei di portare con voi qualcosa di pesante.»
«Cioè?»
«Qualcosa che vi copra bene, insomma, che vi tenga caldo.»
«E perché mai?» chiese Giovenca.
«O bella, è noto che a San Donnino fa piuttosto freddo.»
«A San Donnino?»
«Le carceri di Como, no? Non le conoscevate?»
Giovenca impallidì, il Messeneri invece prese la testa del terzetto e si sistemò il ciuffo scompigliato.
«Grazie, maresciallo» disse.
«Grazie di cosa?» si stupì il Citrici.
Ma per il cappello, no?
L’avesse portato, come sua abitudine e prescritto dal regolamento, chissà a quell’ora dove sarebbe stato.
«Oggi comunque dovrebbe finire» commentò il Citrici.
«Ah sì?» fece il Messeneri.
«Così insegna la leggenda» spiegò il maresciallo, sorridendo per non fare la figura del credulone.
Anche se, col passare degli anni, aveva dovuto ammettere tra sé che qualcosa di vero ci doveva essere.
Un giorno oppure tre o sette.
A volte, ma raramente, undici.
Quale che fosse la verità, quella mattina continuava a soffiare ancora, bello gagliardo.
Una volta rientrati in via Manzoni sembrava di avere a che fare con un coltello che affettava l’aria e distribuiva le fette contrada per contrada, lasciandole libere di scontrarsi tra loro, creando selvaggi mulinelli.
Giovenca non aveva ancora detto mezza parola.
Né parlò quando giunsero davanti alla merceria.
Si fermò davanti ai gradini che portavano all’interno.
Né il Citrici né il Messeneri osarono dire qualcosa: parve a entrambi giusto che se la guardasse per un po’, se l’imprimesse bene in testa poiché non l’avrebbe rivista tanto presto.
Così come il Geremia, che di rivedere la Giovenca tanto in fretta non se l’aspettava certamente.
Stava dando di ramazza alla merceria, obbedendo al primo ordine della giornata.
Mollò la scopa e uscì.
Quei due carabinieri dietro di lei, cosa facevano?
Giovenca per prima, i capelli scompigliati da un’ulteriore raffica di vento, fu lì per dire qualcosa, ma la bocca le si riempì di aria fredda impedendole di parlare.
Il Citrici invece riuscì a gridare.
Emise un: «Via…» che avrebbe voluto completare con un “… da lì!”
Via da lì!
Dal punto verso il quale una persiana della camera da letto, quella persiana che proprio lui aveva consigliato di far riparare, stava cadendo, strappata al muro dalla violenza del vento.
Tra il “Via” e il “da lì”, la persiana concluse la sua corsa sulla testa del Geremia che rimase un istante con la bocca aperta e poi cadde a terra, privo di vita.
Il Citrici restò impalato a guardare la scena.
Il Messeneri, avvedendosi di come il suo collega fosse turbato, si avvicinò alla Giovenca e la prese per un braccio, onde evitare complicazioni.
Ma la donna non era nemmeno stata sfiorata dal pensiero di scappare, ipnotizzata dalla targa che splendeva all’ingresso della merceria:
“PREMIATA DITTA SORELLE FICCADENTI”.