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«Sorellastra!» sobbalzò la perpetua.

Mica lo sapeva già!

Lo apprese infatti nello stesso momento in cui anche il reverendo don Pastore ne veniva informato dal maresciallo Citrici.

Il fatto è che, una volta trovatasi in cucina, aveva pensato bene che se, una tantum, avesse dato ragione alle malelingue, e quindi, sempre una tantum, avesse offerto loro motivo di parlare a ragion veduta, non avrebbe certo peggiorato le cose. Quelle avrebbero comunque spettegolato.

Quindi, senza ciabatte, era scivolata in corridoio e aveva appiccicato l’orecchio alla porta dello studio dove prevosto e maresciallo stavano conversando.

All’uscita del Citrici, ribadita ad alta voce dal sacerdote, era scappata di corsa in cucina, come se il pavimento del corridoio fosse diventato improvvisamente di brace, e aveva chiuso la porta con la fantasia di lasciar fuori la tentazione di tornare a orecchiare per sapere dell’altro.

Poco, in realtà, poiché se gli atti del Comune di Albate testimoniavano che Giovenca Ficcadenti era andata in sposa a Coloni Ireneo, da Albate, di Coloni Eracle e Primofiore Erbelli nella primavera del 1915, quando da poco aveva compiuto i 27 anni, nessuno, tranne coloro che le avevano vissute, vale a dire Domenico Ficcadenti, don Parigi e pochi intimi, “E naturalmente noi carabinieri”, puntualizzò il Citrici, nessuno quindi, tranne costoro era a conoscenza delle traversie che avevano accompagnato la Giovenca a quell’eccellente matrimonio per ritrovarsi poi, nel giro di poche settimane, vedova in un certo senso abbastanza inconsolabile.

Il fulgore del suo aspetto, la sua bellezza senza difetti non lasciavano dubbi sul fatto che fosse donna giunta alla piena maturità. C’erano ancora margini invece nell’animo di Giovenca, territori inesplorati, che aspettavano solo di essere svelati.

Avvisaglie c’erano state. Di cui per primo avrebbe potuto accorgersi Domenico Ficcadenti se non fosse stato pressoché sempre chiuso in un separé del laboratorio a studiare nuovi bottoni: era stato il periodo in cui Giovenca, da poco diciassettenne, aveva preso il vezzo di visitare quotidianamente, e spesso più di una volta al giorno, l’opificio paterno dove lavoravano solo giovani maschi in numero di otto che, al suo apparire, si scambiavano occhiate distraendosi infallibilmente dal lavoro. Il Ficcadenti se ne accorgeva solo a tratti e, quando la coglieva sul fatto, Giovenca aveva sempre una scusa pronta: informarsi su come andasse un certo mal di schiena oppure chiedere cosa desiderasse per pranzo o cena.

A un certo punto, del “non so che” che l’agitava, la giovane aveva pensato di chiedere lumi a Zemia, se per caso anche lei, alla sua età, avesse avvertito quelle indefinibili sensazioni: irrequietezze, calori, pulsioni e fantasie ineffabili. Zemia aveva negato recisamente e consigliato di sottoporre la questione a sua madre la quale, a tutti i dubbi di Giovenca, aveva risposto: «Sono cose delle donne».

Una risposta del piffero, che aveva lasciato Giovenca ignorante come prima e in più con il vago sospetto di non essere del tutto normale.

Covando tale preoccupazione e non avendo nessun altro con cui confidarsi, la giovane era caduta in uno stato di malinconia perniciosa: di giorno aveva preferito stare alla larga dal laboratorio paterno poiché il solo pensiero di entrarci acuiva in lei il sentimento di diversità che la faceva soffrire. Ma di notte, quando la sua forza di volontà nulla poteva, certi sogni turbolenti, di cui conservava appena una vaga memoria al mattino, avevano avuto il potere di convincerla definitivamente che dentro di lei qualcosa non funzionava davvero e, di conseguenza, aveva bisogno di aiuto.

Aveva due sole alternative. Don Parigi oppure il dottor Zecchinetti, scartato, quest’ultimo, poiché aveva fama di impunito palpatore.

S’era quindi rivolta al sacerdote, protetta dal vincolo della confessione, esponendo per la prima volta le conclusioni cui era arrivata dopo avere a lungo patito: cioè che fosse destinata al convento. A quell’uscita il sacerdote aveva avuto un sobbalzo. Non era la prima giovane che vantava una vocazione per sfuggire a insostenibili condizioni familiari o sfruttamenti di vario genere, ma il caso di Giovenca, di cui conosceva perfettamente la famiglia, gli era parso singolare. Il destino di Giovenca non era il convento ma la vita, il mondo, un matrimonio, i figli e tutto ciò che permetteva di andare sempre avanti al Creato dell’Unico.

Di sicuro non toccava a lui spiegarlo alla ragazza. Ma aveva sottomano la soluzione nella persona della sua perpetua Rigorina.

Tanto lui era spirituale, tanto quella era pratica. Tra i loro caratteri non c’era conflitto però. Esercitavano ciascuno la propria missione con diligenza e misura che si trattasse, per l’uno, portare il viatico a un moribondo e, per l’altra, torcere il collo a una gallina.

Rigorina, dalle unghie perennemente a lutto, divenne per Giovenca vera e propria maestra di vita. Don Parigi gliel’aveva affidata dicendole: «Spiegatele un po’ come vanno le cose, svegliatela alla vita che Nostro Signore le ha donato».

Rigorina aveva risposto: «Lasciate fare a me» e l’aveva valutata con lo stesso occhio clinico che applicava nella scelta delle galline da uova quando il mercante Svernazzi passava a offrire la sua merce.

Prima di tutto la Giovenca era una gallina dalle uova d’oro. Ma non era ancora pronta per farle: la vita che aveva fatto sino ad allora, l’assenza di una madre che le spiegasse per bene certe cose ne avevano ritardato la maturazione interiore. Ci voleva pazienza. Che pensasse, per intanto, di essere una specie di ravanello, la cui foglia aveva appena bucato la terra mentre il frutto vero era ancora lontano dal maturare, sotto, invisibile agli occhi. Tutto ciò che sentiva, calori, pruriti o improvvise orripilazioni che fossero, altro non erano se non gli alimenti grazie ai quali il ravanello sarebbe cresciuto nella polpa oltre che nella foglia. Capitava, a volte, che quella stessa foglia avesse uno sviluppo tale da illudere che dentro la terra ci fosse un frutto di pari sostanza. Guai invece a raccoglierlo prima del tempo giusto, prima che lui stesso si affacciasse alla superficie.

Così andava nell’orto e così andava nella vita. E le sorprese erano sempre dietro l’angolo. Perché a volte tra i ravanelli o le insalate o le carote, spuntava meravigliosamente un fiore. Poteva capitare grazie al vento oppure per merito di un venditore di semenze distratto o a causa di un seme solitario caduto a caso nel cartoccio delle insalate.

Quel fiore, nel caso specifico, era Giovenca: un piccolo miracolo. Che, come tale, andava trattato. Non al pari di quelli appositamente coltivati ma come un dono da destinare a un’occasione speciale, ornamento di un giorno che non si sarebbe mai più dimenticato.

Un fior di gallina quindi la Giovenca che, una volta compresa la sua natura di femmina a tutto tondo, doveva anche capire che non poteva e non doveva buttarsi via con il primo venuto e nemmeno con il secondo o con il terzo, ma aspettare l’occasione giusta: quella in cui avrebbe cominciato a deporre uova, ma d’oro zecchino.

Giovenca non aveva impiegato molto a entrare nella filosofia vegeto-animale applicata agli esseri umani da Rigorina. Aveva tradotto in parole semplici il succo dei suoi discorsi e aveva eletto la perpetua a giudice insindacabile delle sue scelte, segnatamente quelle in tema di proposte matrimoniali.

Nell’arco di due anni, di comune accordo, avevano scartato in blocco la gioventù di Albate e dintorni, compresi i dipendenti del bottonificio, in quanto, bellezza o bruttezza a parte, non offrivano alcuna prospettiva di futuro. Analogamente erano stati ricusati alcuni figli di mercanti di bestiame e di produttori di articoli per la casa: la diffidenza di Rigorina per tutto ciò che era commercio era diventata appannaggio anche di Giovenca che, sulle orme della sua maestra, aveva cominciato a temere il nascondersi, dietro l’affare, di una sonora fregatura.

Il momento buono era sembrato arrivare nel 1913 in occasione del Gran Premio dei Laghi, concorso d’idroaeroplani organizzato dalla Società Italiana d’Aviazione con sede sociale in Milano, patrocinato da Sua Maestà il Re e sotto il patronato dei ministeri della Marina e della Guerra, che si era svolto tra il 5 e il 9 ottobre di quell’anno. L’eco della manifestazione non aveva mancato di raggiungere le orecchie di Domenico Ficcadenti cui l’età, andava ormai per i settantatré, non aveva ridotto la fantasia. Era partito in tromba a immaginare una linea di bottoni che riprendessero la forma di quelle fantastiche macchine volanti e con i quali abbellire le divise degli arditi dell’aria. Agghindato come un gagà, e accompagnato da Giovenca, a sua volta vestita da un abito che ne esaltava le forme e il colore dei capelli, la mattina di domenica 5 ottobre, primo giorno di gara, era partito per Como. Il tempo non era dei migliori. Pioveva e tirava vento. Gran parte delle prove previste, di altezza, di rapidità di slancio, di velocità e ascensionali, erano state soppresse o rinviate al pomeriggio. Al Ficcadenti importava poco di assistere alle evoluzioni degli idroaerei, essendo molto più interessato a imprimersi in testa la loro forma e quindi elaborare il metodo per trasformarli in bottoni. Era stato così che, mentre scrutava attentamente l’Albatros-Werke del tedesco Hellmuth Hirth, era entrato in contatto con certo Galeazzo Invalsi il quale, vedendolo così interessato al velivolo, si era permesso di chiedergli se per caso volesse, qualora il tempo l’avesse permesso, provare l’ebbrezza di un volo: era in estrema confidenza con la maggior parte dei piloti in gara, aveva detto, e con una cifra ragionevole avrebbe potuto esaudire il suo desiderio. Era stato in quel momento che Giovenca aveva raggiunto i due, quando il Ficcadenti stava spiegando all’Invalsi che il suo interesse era limitato alla possibilità di ridurre quelle macchine affascinanti in altrettanti bottoni. L’Invalsi, al vedere lo splendore che s’era avvicinato protetto da un ombrellino, aveva immediatamente cambiato tattica: uno come lui, introdotto e conosciuto in quel mondo nuovo che stava nascendo, noto, aveva sussurrato con un certo fare di mistero, anche presso il ministero della Guerra, avrebbe potuto fare qualcosa per la Premiata Ditta Ficcadenti. Dopo un tè ristoratore, bevuto presso il caffè Volta, i due s’erano accordati per una visita dell’Invalsi al laboratorio Ficcadenti. Lo stesso Galeazzo aveva stabilito per il giovedì successivo, aveva troppi impegni negli altri giorni, avendo cura di presentarsi a ridosso dell’ora di pranzo in modo da poter sedere a tavola con tutta la famiglia, e a lato di Giovenca.

Vicini, i due componevano un quadro di sfolgorante bellezza: tanto era solare quella di Giovenca quanto tenebrosa quella dell’Invalsi, che era alto, slanciato, di modi raffinati, nero di occhi e capelli.

Dopo quel giovedì, nel corso del cui pomeriggio il giovanotto aveva visitato il laboratorio del Ficcadenti e preso visione di alcuni disegni preparatori relativi a “bottoni alati”, l’Invalsi aveva dato corso a un serrato corteggiamento di Giovenca, impresa tra le più facili perché la ragazza era caduta nella rete del suo fascino: non riusciva a immaginare segrete mire dietro la corte del giovane. L’Invalsi invece aveva fatto due più due. Aveva infatti calcolato che la fibra del Ficcadenti non avrebbe potuto tenere all’infinito e, sposandone la figlia, si sarebbe trovato la pappa bella e pronta. Per settimane non aveva fatto altro che visitare i Ficcadenti portando fiori e dolciumi di cui faceva omaggio anche a Zemia ed Estatina, nei confronti delle quali fingeva simpatia, meditando invece di mandarle a prendere aria da un’altra parte quando fosse divenuto padrone di casa.

A rovinarne i piani era stata la stessa Giovenca, la domenica in cui l’aveva presentato a Rigorina quale fidanzato in pectore. La perpetua l’aveva esaminato da capo a piedi, ascoltato, ne aveva osservate le mosse. A sera aveva emanato la sua sentenza in presenza di don Parigi.

«È troppo profumato per essere un uomo vero, ha le mani troppo pulite ed è sempre troppo d’accordo con quello che uno dice. È infido. Fosse un manzo non lo vorrei nemmeno in regalo. Sarebbe di quelli che ti piantano le corna nella schiena non appena ti giri.»

Rispettoso dei pareri della sua perpetua, il sacerdote li aveva riferiti al Ficcadenti, pregandolo di prenderli per quello che erano ma anche di non sottovalutarli.

Con quella pulce nell’orecchio Domenico Ficcadenti non aveva dormito per un paio di notti, riflettendo sull’atteggiamento da assumere. Infine si era chiarito le idee. Lavorando ininterrottamente per un paio di settimane, e offrendo il solito buon viso al giovanotto, aveva preparato una linea di “bottoni alati” e comunicato all’Invalsi che era pronto a sottoporli ai suoi amici dell’aeroclub comasco per sentire un primo parere. Galeazzo aveva risposto che sarebbe stata sua cura convocarli d’urgenza e ritornare di lì a un paio di giorni per dare conto della data dell’incontro. Da quel momento, di lui, si era persa ogni traccia e l’interessamento di don Parigi aveva appurato che presso il club comasco il nome di Galeazzo Invalsi era assolutamente sconosciuto, della qual cosa aveva avuto cura di informare il Ficcadenti. Per più giorni Domenico aveva studiato la maniera migliore per dire a Giovenca che sul conto dell’Invalsi, lui per primo, si erano sbagliati tutti. Non c’era stato bisogno però di inventare storie. Una mattina nella merceria della ditta era entrata Giunone Paterecci, moglie di muratore cottimista, con indosso una giacca del marito sulla quale spiccavano come gioie un paio di “bottoni alati”. Giovenca li aveva immediatamente notati e non s’era trattenuta.

Come faceva ad averli quella?

La Giunone aveva sorvolato sul tono inquisitorio della domanda, spiegando invece che erano un regalo del marito il quale li aveva trovati in un canale di scolo poco fuori il paese. Al Ficcadenti, una volta messo al corrente della novità, non era restato altro da fare se non dire la verità circa il giovanotto.

Solo la Rigorina aveva beneficiato dell’accaduto, trovando conferma della bontà del suo intuito. Giovenca invece era ripiombata in uno stato di atonia dentro il quale l’idea di farsi suora era tornata a bussare.

Premiata Ditta Sorelle Ficcadenti
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