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Mezz’ora erano rimasti chiusi nello studio a parlottare.
Giovenca, tra una parola e l’altra, qualche risata.
Il Geremia, mai sentito fino ad allora pronunciare frasi così lunghe.
Cosa si fossero detti era stato impossibile capirlo. Il signor prevosto, dopo averli lasciati soli, aveva resistito per un po’ passeggiando su e giù per il corridoio, poi, venendo meno a una sua certa etica, s’era avvicinato alla porta dello studio per orecchiare. Ma il massiccio legno s’era frapposto tra il suo orecchio e i due, lasciando passare soltanto vaghi suoni di voci.
Circa la spigliatezza della Ficcadenti, il sacerdote non aveva avuto dubbi, quindi non s’era meravigliato di sentirne i trilli come se avesse un clarino al posto della lingua.
Il Geremia invece l’aveva lasciato di stucco.
Già prima, per dirla tutta, quando l’aveva ricevuto in canonica, il giovanotto gli aveva fatto impressione.
Imbrillantinato, tirato a pomice, ben rasato, la pelle lustra e uno sguardo che così vivace non glielo aveva mai visto. Pure il vestito paterno, che gli andava un po’ stretto, anziché renderlo ridicolo, aderiva alla sua muscolatura piuttosto stagna conferendogli un’aura di forza e volontà.
Il sacerdote aveva considerato tra sé quel presentarsi così un peccato di vanità e soprattutto un’inutile fatica, visto ciò che lo attendeva. Aveva anche calcolato che per arrivare al dunque non ci sarebbero voluti più di dieci, quindici minuti con una variabile coda durante la quale lui avrebbe dovuto fare il consolatore degli afflitti: nella fattispecie, con sagge parole, avrebbe dovuto convincere definitivamente il Geremia che quella donna non era fatta per lui e che l’impossibilità (non, avrebbe sottolineato, il rifiuto), l’impossibilità di legarsi a lui andava considerata come un segno del Cielo.
Il prolungarsi del conciliabolo non l’aveva turbato più di tanto, in fin dei conti il Geremia era un bel crapone, le cose bisognava dirgliele due o tre volte prima che le comprendesse, anche se, quando aveva sentito rumore di sedie mosse, aveva tirato un bel sospiro.
“Tutto è concluso” s’era detto.
All’aprirsi della porta però s’era trovato faccia a faccia con lo stesso Geremia.
Non era mica così che s’era immaginato la scena.
Non era mica così che s’era immaginato il viso del giovanotto.
Mica con quel sorriso che gli occupava la metà destra del volto, l’occhio semichiuso, un po’ di rughe assassine sulla fronte. E il bozzo che sembrava pulsare.
Mica con quelle mani che per tenerle in tasca aveva dovuto alzare e spingere in avanti le spalle assumendo una posa da ganassa.
E mica con quella voce fonda da Colleoni con la quale l’aveva salutato, “Buonasera reverendo e grazie”, sgusciandogli di lato e lasciandolo lì come un cucù a guardare il grazioso sorriso della Ficcadenti.
La quale, a domanda:
«Tutto liscio?»,
«Tutto bene» aveva risposto.
Candidamente spiegando che quel bel giovanotto le aveva fatto un’ottima impressione ed era certa che, frequentandolo un po’ e conoscendolo a fondo, sarebbe divenuto il fidanzato che da tempo cercava senza trovare.