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Eracle Coloni la attendeva in sala da pranzo, seduto, come suo solito, a capotavola, visto che mezzogiorno era passato da pochi minuti. Giovenca era entrata portando con sé una ventata di impalpabile euforia.
Quella mattina, come già tante volte aveva fatto, visto il bel cielo sereno e respirata dalla finestra della sua camera una potente aria profumata di primavera piena, forte, decisa a non cedere terreno all’estate incombente, aveva optato per l’ennesima passeggiata per i prati e i viottoli che circondavano Albate, così da restare sola con i sogni appena fatti. Sogni che, a dirli, solo le orecchie di Rigorina avrebbero potuto ascoltare, oltre che approvare.
C’erano lei e Ireneo, in quei sogni, senza vestiti addosso. Anzi, in verità, dapprima lei, sola e nuda, distesa sulle magnifiche lenzuola bianche e profumate del suo letto, sposa senza vergogne in attesa che comparisse lui, con tanto di baionetta pronta all’uso. A quel punto, come dire?, talvolta il Trionfa si inseriva, senza che il suo sposo avesse niente da obiettare, e il sogno, pur rimanendo tale, diventava realtà. Tutto ciò che Giovenca aveva esperito durante la prima, e unica, settimana trascorsa con il marito, diveniva umorale sensazione. Così, quando per davvero si svegliava, le capitava di trovarsi distesa per traverso, il cuscino latitante, e quasi sempre nella necessità di un’abluzione prolungata.
Dopo la prima di quelle esperienze oniriche, s’era preoccupata che eventuali gemiti o miagolii potessero giungere all’orecchio del fausto maggiore. Verificata la distanza tra le due camere da letto, non se n’era più data pensiero, augurandosi piuttosto che fantasie di tale fatta non si facessero attendere più di tanto, desiderio che era stato puntualmente esaudito ben oltre le aspettative. Infatti, se i sogni dei comuni mortali svanivano perlopiù all’alba, i suoi permanevano, in forma di pensiero fisso, per tutto il resto della giornata. Così chiari e puntuali che, se Giovenca nel corso delle passeggiate mattutine incrociava qualche cappelletta votiva, si fermava e pregava, qualunque fosse il santo o la santa, affinché la guerra finisse il prima possibile oppure al marito venisse eccezionalmente concessa una licenza.
Anche il maggiore a riposo sognava. Sogni militareschi i suoi, da vero soldato, di battaglie vinte o eroiche resistenze che, senza guardarla in viso, gli piaceva raccontare alla nuora giusto per farle intendere quanto il mondo non fosse che un teatro di guerra creato per l’uomo, mentre loro donne avessero il solo compito di sfornare milizie per gli eserciti.
La sera avanti il suocero le aveva raccontato di aver avuto in sogno la visione del suo primo nipote: ufficiale anche lui, naturalmente, e di cavalleria.
Forse era stato quello, l’accenno ai quadrupedi che il suo primo figlio avrebbe cavalcato. Nel sogno di Giovenca il marito le si era presentato con tanto di briglia in mano e manifestando l’intenzione di cavalcarla. Palafreniere era il Trionfa.
Dopodiché, lei…
Su quella parte del sogno, Giovenca era andata e ritornata, come se volesse solo spiarla, e arrossendo. In ogni caso, al risveglio s’era trovata con la testa al posto dei piedi e viceversa, poi una volta uscita s’era abbandonata a quella fantasia e dolcemente assaporandone la lussuria era ritornata alla realtà solo quando aveva sentito il campanile di Albate battere il primo dei dodici tocchi di mezzogiorno, realizzando che il suocero, da buon militare, doveva già essere seduto a capotavola in attesa che lei comparisse.
Una volta entrata nel salone da pranzo, le parole di scusa per il piccolo ritardo le erano morte sulla lingua.
Le era bastato solo uno sguardo per capire tutto.
Il posto del marito, alla sua destra, equidistante tra lei e il suocero, non era apparecchiato come al solito. Il piatto del maggiore, fondo poiché era costume della casa iniziare sempre con una minestra, era girato in su. Il volto del suocero era congesto, gli occhi rossi, lacrime lente gli rigavano ancora il viso, nella mano destra stringeva quello che a tutti gli effetti era un cablogramma, mentre il suo sguardo vagava oltre la fresca vedova ferma all’ingresso.
Dalla bocca del suocero non era uscita una parola ma non ce n’era stato bisogno.
E, nonostante ciò, nonostante l’improvvisa vertigine che le aveva annebbiato la vista, il sogno equino della notte appena trascorsa non aveva voluto saperne di abbandonarla.