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Giovedì 27, ultimo di gennaio 1916, sant’Angela Merici, alba, come da calendario, alle 7:27 e tramonto alle 17:18, era una splendida mattina che faceva sperare nella fine anticipata dell’inverno, un’illusoria giornata di primaverile suggestione dalla quale però, come ammoniva sempre il calendario, sarebbe stato opportuno guardarsi.
Giovenca ne approfittò per fare i conti al cospetto della sorellastra.
Le pubblicazioni di matrimonio erano state affisse all’albo Pretorio di pomeriggio.
«E allora?» chiese Zemia.
«Come allora?»
Era importante!
Contava come giornata intera per giungere al minimo dei dieci giorni di legge dopo i quali era possibile celebrare il matrimonio?
Bo’, non lo sapeva.
In ogni caso era meglio non correre rischi.
«Non teniamone conto» decise.
Quindi.
Contò sulle dita di una mano.
Sabato, domenica…
«E una» disse.
Ce ne volevano due, sempre secondo la legge, nell’arco di quei dieci giorni, affinché tutto fosse in regola.
Lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, sabato, domenica…
«E questa è la seconda.»
Poi lunedì.
«Siamo a dieci.»
Dal giorno seguente, liberi tutti, si poteva andare a nozze.
L’8 febbraio, martedì.
«Martedì?» chiese Zemia.
«Perché no» disse Giovenca.
Zemia si trattenne.
C’era qualcosa, in verità, ma non sapeva se valesse la pena dirlo, a rischio di fare la figura di una bambina e soprattutto far arrabbiare Giovenca.
«Hai qualcosa in contrario?» chiese la sorellastra.
Se ce l’aveva, che lo dicesse subito. Se no si tirasse via dal viso quell’espressione titubante come se non fosse a un passo dal realizzare un desiderio ma piuttosto le avessero fatto bere di nascosto la purga.
«Che senso ha aspettare?» propose Giovenca.
«Effettivamente, no» ammise Zemia.
E allora, martedì.
Pur se, confessò tra sé Zemia, come voleva la saggezza popolare, di venere e di marte né si sposa né si parte.