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Come previsto Rebecca non aprì bocca per due giorni di fila, domenica e lunedì. Né il prevosto cercò di forzarne il silenzio. Non per cattiva volontà. Sapeva, piuttosto, che sarebbe stato inutile.
Pure martedì la perpetua mantenne uno stato di rigoroso silenzio essendo sola in casa poiché il signor prevosto era uscito per le benedizioni in vista del Natale.
Faccenda impegnativa. Poiché, esaurito il giro delle frazioni, dove il cerimoniale era svelto, quando toccava al paese vero e proprio c’era da seguire un metodo non scritto ma tradizionalmente accettato da tutti che aveva un andamento centripeto: era un cerchio che, partendo dai rioni più periferici, la Calchera, il Bogino, Coltogno, si stringeva piano piano verso il centro storico, dove l’abbondanza di negozi e abitazioni impegnava il sacerdote dalla mattina sino alla sera tardi.
E, cosa alla quale i bellanesi tenevano e sulla quale non erano disposti a trattare, doveva essere il prevosto in persona a benedire le loro case o i loro esercizi. Il coadiutore, se non era impegnato altrove, poteva al massimo accompagnarlo.
Martedì quindi toccò al Bogino e a buona parte di Coltogno.
Mercoledì la perpetua riprese a parlare secondo uno schema ormai collaudato. Non volendo dare piena soddisfazione al signor prevosto, non appena lo sentì scendere le scale, cominciò un borbottio tra sé, sorta di allenamento per la lingua a riprendere la sua funzione, in modo che, quando il sacerdote entrò in cucina, non ebbe difficoltà a chiedergli cosa preferisse per pranzo, ottenendo un’ormai solita risposta.
«Quello che volete.»
Il ghiaccio era rotto.
Più sereno, don Pastore, dopo aver celebrato la messa, partì alla volta di ciò che restava di Coltogno e chiuse la giornata con la Calchera.
Non mancava, adesso, che il vecchio nucleo del paese.
Un intero giorno, fitto fitto, dividendolo a metà.
La prima ne occupò tutta la mattina.
Poi toccò alla seconda metà, vale a dire dalla Pradegiana fino a via Manzoni numero 1, sede della Premiata Ditta Sorelle Ficcadenti.
Quando si trovò davanti ai tre gradini che davano accesso alla merceria era ormai buio e cominciava a nevischiare. I due chierichetti che l’accompagnavano, vedendo quei primi, piccoli fiocchi, entrarono in agitazione per la felicità.
Il prevosto li invitò alla calma.
«Siate contegnosi, mi raccomando, ricordatevi quello che stiamo facendo» disse, «e portate pazienza ancora per un poco. Qui dovremo fermarci più a lungo del solito.»
I due non osarono replicare ma si scambiarono uno sguardo che valse più di qualunque discorso.
Avevano dovuto già sopportare le chiacchiere della moglie del sindaco, dalla quale avevano ricevuto tre o quattro “momi” anziché una bella mancetta; quelle della presidentessa dell’associazione San Vincenzo, che non aveva fatto altro che scompigliare loro i capelli dicendo “Ma che bravi, ma che bravi”; l’inquietante signora Marcisa, una vecchia svanita e con la casa piena di gatti dentro la quale c’era un odore insopportabile. Dopo il loro ingresso, aveva chiuso la porta a chiave per paura che qualcuno di loro scappasse e, solo dopo le insistenze del signor prevosto, ma c’era voluta una buona mezz’ora!, aveva riaperto liberandoli dall’assedio di quella puzza. Infine, e col timore di essere poi puniti, dentro la casa del gelataio Gnagnoletto erano stati colti da un accesso di risa davanti a quell’uomo completamente sdentato. Quando parlava aveva una mimica irresistibile che lo faceva assomigliare a uno dei gioppini che di tanto in tanto una compagnia di giro bergamasca metteva in scena presso il Circolo dei Lavoratori.
E adesso, proprio mentre cominciava a nevicare e sarebbe stato bello starsene a faccia in su a guardare i primi fiocchi scendere, cosa dovevano sopportare ancora?
Intanto don Pastore mise piede sul primo scalino e prese a salire. Dimentico di ciò che era successo a Rebecca spinse la porta d’ingresso.
«Che sia chiuso?» borbottò, provocando un fulmine di gioia nei due chierichetti.
Poi ricordò. Fece un passo indietro, aprì e tenne aperto, facendo ala ai due piccoli cerimonieri.
Una volta dentro l’assalì un caldo che non era frutto solo di una stufetta invisibile ma anche, gli parve, della merce che riempiva il negozio: merce destinata a ricoprire, vestire, proteggere e che, in qualche modo, trasmetteva una suggestione di calore. I due chierichetti, in risposta al freddo dell’esterno, divennero immediatamente rossi come mele mature.
Fu la voce di Zemia a distogliere il prevosto dai pensieri.
«Buonasera, reverendo!»
Se il sacerdote era preparato, grazie alla descrizione della sua perpetua, alla vista di quella testa parlante, non lo erano i due chierichetti. I quali, al saluto, e una volta individuata la fonte della voce, restarono allibiti per qualche istante e poi d’istinto si nascosero dietro il prete.
Zemia, al solito, indossava una marsina nera da lavoro e, in virtù del pallore del suo viso sullo sfondo della tenda nera che nascondeva un più che probabile separé, dava realmente l’impressione di non avere corpo.
«Felice di conoscervi» salutò il prevosto che, nonostante l’assenza di tracce, cominciò a percepire tra i vari odori della merceria profumo di calicantus.
«Sono qui per la benedizione natalizia» disse.
Zemia allora, dimostrando di avere, benché scarnificati, tronco e gambe, uscì da dietro il bancone e si pose al centro del negozio, in modo da poter ricevere addosso alcune gocce di acqua santa.
Il momento era venuto, pensò il prevosto, indugiando per un istante sulla mano sinistra della donna e sul mignolo mancante.
«Vostra sorella» chiese, «non desidera assistere?»
Zemia non fece una piega.
«Non c’è, purtroppo» rispose. «È andata a Monza. Sapete, per gli ordini settimanali.»
«Capisco» fece il sacerdote cominciando a intingere l’aspersorio.
Benedisse, ma distrattamente.
A Monza, e ancora di giovedì!
Una volta fuori, chiese scusa all’Unico per la scarsa concentrazione che aveva messo nell’atto appena compiuto. Ma pure Lui, dopo tutto, doveva ammettere che quella faccenda aveva il sapore di un segreto.
Appena fuori dalla merceria: «Sciò» disse ai due chierichetti, «a casa!».
I due partirono correndo, felici per la rapida soluzione della cerimonia e inebriati dalla neve che cadeva a fiocchi sempre più larghi.