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Memore di come s’era conciato la notte della vigilia dell’Epifania e anche di dove aveva smaltito la colossale sbornia, il Geremia entrò in casa Ficcadenti fermamente deciso a non bere nemmeno un goccio di vino.
La Giovenca non c’era, si stava ancora preparando, lo informò Zemia, invitandolo a sedersi nella saletta da pranzo. Dopodiché, accomodatasi pure lei, la merciaia approfittò per squadrarlo visto che il Geremia non solo non osava parlare ma nemmeno guardarsi in giro, e aveva fissato lo sguardo sulla punta delle sue scarpe.
Terminata l’ispezione, Zemia decise che era ora di rompere il silenzio.
«Allora, come va?» chiese.
Il Geremia non sapeva da che parte cominciare.
Se la cavò.
«E voi?»
«Bene, grazie» rispose Zemia, ritornando il pallino al giovanotto.
«E il lavoro?» restituì questi.
Finalmente un argomento solido.
Il lavoro, spiegò Zemia, andava bene. La merceria aveva subito ingranato, incontrando il favore delle massaie bellanesi. Bene, nonostante i veleni che qualcuno cercava di spargere intorno alla loro attività.
«Non vi sto a fare nomi» commentò Zemia.
Ma era chiaro che si riferiva alla coppia Tocchetti-Galli che non mancavano di inviare in merceria sotto mentite spoglie l’una o l’altra moglie alla ricerca di qualche anomalia o elemento che potesse dar loro il modo di segnalare il difetto alla Deputazione Amministrativa e, non trovando niente, avevano messo in giro la diceria che la merce messa in vendita presso il loro esercizio fosse di origine furtiva o di contrabbando e che chiunque l’acquistasse rischiava di incorrere nei rigori della legge.
Tempo perso.
«Siamo in una botte di ferro» concluse Zemia, anche perché aveva sentito i passi della Giovenca che si stavano avvicinando.
Rinfrescata, profumata, sorridente ed elegante, la giovane fece un’entrée da attrice.
«Cosa si dice di bello?» chiese.
Zemia l’aggiornò.
«Oh, quei due!» rispose Giovenca, agitando una mano per aria e così liquidando la questione.
«Ma dobbiamo proprio parlare di lavoro davanti al mio bel giovane?» chiese poi alla penombra della stanza.
Nonostante la scarsità di luce, entrambe le donne videro il viso del Geremia incendiarsi. Per risolverne l’imbarazzo, la Giovenca propose un bel vermouthino.
Rigido come un baccalà il Geremia rispose che non ne aveva mai bevuto.
«E allora?» ribatté Giovenca. «Ne avete forse paura?»
Ricordando quello che diceva un meccanico friulano che era passato l’anno precedente a revisionare alcune macchine del cotonificio, quando a qualunque ora del giorno e della notte gli offrivano da bere nella speranza, sempre delusa, di vederlo finalmente ubriaco, il giovane rispose: «Mai paura».
«Bene» concordò Giovenca.
Perché a lei gli uomini che bevevano e dimostravano di tenere il vino andavano particolarmente simpatici.
Registrata l’informazione il Geremia aveva accantonato la memoria della recente disavventura e si era prontamente adeguato. In verità durante la cena ebbe anche una tangibile solidarietà. Tra una battuta sulla perniciosa invidia dei Tocchetti-Galli e l’altra sul tempo, se non pensava lui a riempirsi il bicchiere appena vuotato, le mani della Giovenca o della Zemia correvano al bottiglione di rosso e versavano. Dopo circa un’oretta il Geremia era viola come una rapa, cominciava ad avvertire un certo rallentamento nei muscoli, compresi quelli della lingua, e una certa indulgenza nei pensieri.
Soprattutto, superato l’imbarazzo iniziale di trovarsi dentro l’intimità, il cuore di casa della sua bella, aveva cominciato a far ballare l’occhio tutto intorno, cosa che poco prima non aveva osato fare, tenendo piuttosto lo sguardo fisso su una fotografia in cornice: un’immagine scura, inquietante, che sulle prime al Geremia era addirittura sembrata inesistente, come se la cornice non inquadrasse altro che un pezzo di muro, e che poi, adattandosi la sua vista alla penombra del locale, s’era pian piano rivelata, provocandone a maggior ragione la meraviglia.
Perché, in effetti… però, sembrava strano, quasi impossibile…
Talmente impossibile che, fingendo di interessarsi alle banalità con le quali le due sorellastre tenevano viva la conversazione, il Geremia mise sempre di più nel mirino la fotografia e, alla fine, quando ormai era certo di ciò che aveva sotto gli occhi, la Zemia, notando la fissità del suo sguardo, spazzò via ogni possibile dubbio.
«È nostro padre» affermò, richiamando l’attenzione del giovanotto.
Domenico Ficcadenti, che compariva nell’unico ritratto che di lui esisteva, steso nella bara, le mani intrecciate sull’addome a stringere un rosario di bottoni a motivo religioso, fotografato pochi minuti prima di intraprendere il suo ultimo, misterioso viaggio.