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L’era minga la solita Stampina quela lì, giudicò la Rebecca dopo averla fatta entrare.
Strepenàda.
Viòla in facia.
Cont i oecc che ormai ghe borlava fò de la crapa!
Indiavolàda!
O Sìgnur Sìgnur!
Dal respiro corto della donna, la perpetua giudicò che doveva essere successo qualcosa di grave e improvviso.
«Chi è morto?»
La Stampina, memore dei suoi propositi omicidi, la guardò fissamente.
«Per adesso ancora nessuno» rispose.
Parole sibilline, alle quali la Rebecca rispose solo con un agitar del capo, significando che non riusciva a capire.
Il prevosto comparve sulla soglia del suo studio prima che la Rebecca potesse chiedere chiarimenti alla visitatrice.
Ieratico nel suo pallore e con il breviario aperto in mano, fu una sorta di apparizione che la perpetua guardò come se non l’avesse mai visto prima: gli mancava l’aureola che contornava la testa di certi santi negli affreschi del Santuario di Lezzeno, dopodiché il sortilegio sarebbe stato completo, e sarebbero rimasti tutti e tre pietrificati in quella posizione, scuri e silenziosi come il colore della notte di fuori.
Ma il prevosto ruppe l’incantesimo.
«O Stampina, cosa c’è?» chiese.
«C’è che il Signore dovrebbe guardar giù ogni tanto» rispose la Stampina con voce fonda.
«Ma cosa dite?» obiettò il prevosto.
«Appunto…» si aggregò la Rebecca.
«So io» insisté la Stampina.
«Volete parlarmene?» chiese il sacerdote.
«So chì per quèl» affermò.
Don Pastore chiuse il breviaro e si fece di lato.
«Venite» disse invitando con un gesto della mano la donna a entrare nel suo studio.
La Stampina obbedì e, guardandola, alla perpetua sembrò che camminasse come se qualcuno la tenesse sollevata da terra.