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Esebele Trionfa aveva sempre avuto un fiuto bestiale. Avvertiva a un chilometro di distanza quando c’era un piatto di minestra anche per lui, e in genere non sbagliava mai. Tanto più che il suo aspetto studiatamente desolato muoveva a compassione anche il più scannato dei contadini mentre le mogli di costoro erano sempre ben disposte ad ascoltare le novità, meglio se di morte o malattia, di questa o quella cascina sul conto delle quali l’Esebele era sempre informato.
Della dipartita dei due Coloni l’intera provincia era a conoscenza. Quello che però nessuno sapeva erano gli incontri clandestini tra la giovane vedova e il Novenio di cui l’Esebele aveva invece una puntuale contabilità interrottasi con suo grandissimo dispiacere quando la Giovenca era andata sposa al tenentino. Disceso in campo il Coloni figlio, l’Esebele aveva maledetto con tutte le forze quelle nozze e ancor di più i propri lombi che avevano generato un figlio tanto cretino da lasciarsi scappare un’occasione del genere. A sigillo della sua rabbia, durante uno dei rari ritorni a casa aveva riempito di legnate la moglie Canadina, accusandola di essere la maggior responsabile dell’idiozia di Novenio. La poveretta aveva dapprima subìto e poi chiesto il motivo di quella ripassata. Solo allora l’Esebele s’era spiegato, chiarendo quale grande opportunità il deficiente avesse perduto col lasciarsi scappare la figlia del bottonaio.
Le sue orecchie canine erano state tra le prime a udire la novella della repentina morte del tenentino. Cinicamente aveva analizzato per bene la faccenda e concluso che non c’erano vantaggi in arrivo, a meno che la vedovella, concluso il lutto, volesse riaccasarsi: ma certo se l’avesse fatto, rinunciando al bengodi dentro il quale era capitata, non sarebbe stato con un qualunque morto di fame, razza di cui il Novenio era splendido esempio. Tutt’altra reazione aveva avuto quando, sulle prime senza credere alle proprie pur sensibili orecchie, s’era sparsa la notizia del vecchio maggiore. Appurato che non era uno scherzaccio del destino aveva di nuovo fatto vela verso casa e chiesto notizie del figlio.
«Dov’è l’imbecille?»
Nessuno lo sapeva. Gli era toccato attenderlo per un paio d’ore sotto lo sguardo spaventato della Canadina che temeva nuove legnate se il figlio non fosse comparso.
L’imbecille era poi arrivato, odoroso di cimici schiacciate, la testa adorna di frammenti di fieno dopo aver passato la notte in una stalla.
«Hai saputo?» aveva chiesto il padre.
«Cosa?»
«Idiota!»
L’avesse strozzato quando era ancora nella culla avrebbe fatto un favore all’umanità!
«Meno male che ci sono io» aveva aggiunto l’Esebele. «Siediti e ascolta» aveva ordinato.
Giovenca Ficcadenti!
«Sai chi è?»
«No» aveva risposto Novenio con veemenza e arrossendo.
«Invece sì, cretino!»
«Io…»
«Vi siete visti di nascosto più volte, credendo di farla franca, prima che si sposasse.»
Il Novenio aveva abbassato lo sguardo.
«Su la testa!»
Obbediente, Novenio aveva di nuovo guardato il padre chiedendosi che temporale fosse in arrivo.
«Sappi che è vedova» l’aveva informato il genitore.
«Mi dispiace…»
L’Esebele aveva piantato un pugno sul tavolo.
«Ti dispiace!? Allora lo vedi che sei cretino!»
«Ma…»
«Vedova due volte si potrebbe dire.»
Il giovanotto non capiva.
«Il figlio si è tirato dietro il padre» aveva spiegato il vecchio.
A quel punto un po’ della luce paterna aveva cominciato a illuminare i pensieri del figlio.
«Quindi è libera come prima» aveva detto.
Libera e ricca da far schifo.
Novenio era scattato sulla sedia.
«Cosa fai?» aveva chiesto l’Esebele.
«Vado da lei!» aveva risposto Novenio.
«Siediti se non vuoi che ti spacchi le gambe» aveva minacciato il genitore.
Dove voleva andare, cosa voleva fare, pezzo di somaro che non era altro!
Non gli passava per la testa che bisognava concedere alla giovane il beneficio di un po’ di dolore e smarrimento per quella doppia perdita?
E che, volendo rientrare nelle sue grazie, bisognava usare un po’ di tatto, di misura?
E, a proposito di tatto e misura: «Come diavolo ha fatto uno scriteriato pari tuo a entrare nelle grazie di un simile pezzo di manza?».
«Con la poesia» aveva risposto il Novenio.
«Con cosa?» aveva chiesto sbalordendo l’Esebele.
Il giovanotto aveva confermato: la poesia.
«Io le recitavo i miei versi, lei li ascoltava.»
Il vecchio non aveva avuto dubbi.
“Due idioti” aveva pensato.
Meglio così, sarebbe stato più semplice governarli. E tanto di cappello alla poesia che almeno dimostrava di servire a qualcosa.
«Allora ascoltami bene e non farmi ripetere» aveva concluso.
Prima di tutto doveva dare corso a una lenta marcia di riavvicinamento.
Gli anni trascorsi in seminario, aveva riflettuto l’Esebele, non erano stati del tutto inutili, perlomeno il figlio sapeva scrivere e leggere. Bene allora, aveva detto: le avrebbe scritto. Bigliettini da attaccare al cancello tanto per cominciare, per farle capire che lui c’era ancora e l’amava di uguale amore.
Ma con un minimo di criterio, senza partire subito all’assalto.
Si spiegava?
«Sì» aveva risposto Novenio, senza però convincere il genitore.
«Cominciare con frasi di cordoglio!»
Intesi?
Partecipare al suo dolore e poi farle presente che la vita nonostante tutto continuava, la primavera fioriva, gli uccelletti cantavano e quelle balle lì. Evitare gesti impulsivi. Evitare di farsi vedere intorno alla villa come un cane randagio. Lasciare qualche verso che inneggiasse all’amore e alla speranza.
«Ma davvero li scrivi tu?» aveva chiesto l’Esebele.
«Sì» aveva mentito il figlio.
L’idea che allora non fosse lui il padre l’aveva appena sfiorato. Più avanti, se ne avesse avuta voglia, ne avrebbe parlato con la Canadina, legnate ne aveva ancora in magazzino, adesso ben altro premeva.
«Insisti così e aspetta un suo segnale» aveva proseguito.
Un biglietto in risposta, magari, o qualunque altro indizio del ritrovato benvolere della ragazza.
«Dopodiché…»
Il viso di Novenio s’era illuminato.
«Cretino, cos’hai da ridere?»
Non gli aveva lasciato il tempo per rispondere che a quel punto, secondo lui, i giochi erano fatti.
«La scema di casa dove la metti?»
La legittima erede di tutto quel ben di Dio!
Capiva o no?
Doveva spiegarglielo in versi che, con quella di mezzo, lui, se anche fosse riuscito a sposare la Giovenca, non sarebbe stato padrone di niente?
«E allora?» aveva chiesto il Novenio.
«Già!» aveva risposto l’Esebele. «E allora?»
Che intanto cominciasse a piazzare bigliettini amorosi e lo tenesse al corrente.
Al resto avrebbe pensato lui.