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La famiglia Giovio era divisa in due rami ben precisi. Di altri c’era traccia solo nella fantasia del Notaro.
Nemmeno era di quel lago, che aveva dato i natali ai suoi illustri e presunti antenati, il “DOTTOR EDITTO GIOVIO, NOTARO IN COMO”, come annunciava la grossolana targa apposta sul portone del suo studio in sobborgo San Bartolomeo.
Non si capiva da dove potesse aver attinto quel cognome altisonante né si capiva come il maggiore Eracle Coloni avesse potuto scegliere un essere come quello per trattare i suoi affari: forse proprio il cognome l’aveva spinto in tal senso, chiudendo entrambi gli occhi su tutto il resto poiché il Giovio, “Notaro in Como”, era un essere grasso al limite della ripugnanza, sempre sudato, dalla dubbia igiene personale, soprannominato “vonciòn” dai proprietari delle trattorie dove quotidianamente consumava pantagruelici pranzi e cene.
Cinquantenne, era ricco, e non certo grazie ai favori dei maggiorenti comaschi che, ricambiati, lo disprezzavano, ma in virtù di un intuito, seguendo il quale Editto Giovio aveva rivolto sin dall’inizio le sue attenzioni alle classi meno agiate, le più facili da turlupinare. I suoi clienti abitavano a quote variabili sulle montagne che contornano la città di Como e in genere mai sotto i cinquecento metri sopra il livello del mare. Raramente il notaio li riceveva presso il suo studio: era lui che li andava a trovare e quelli erano ben felici di pagare un sovrapprezzo pur di non dover lasciare alpeggi, vigne, stalle, boschi o crotti per scendere in città. Avvisato che c’era bisogno di lui per una divisione, un passaggio di proprietà, una compravendita, un matrimonio di cui bisognava calcolare il valore e la contropartita in dote della sposa, partiva senza indugi, atteso con ansia da quel popolo che non avrebbe mai visto il mare perché il Notaro Editto Giovio ne sapeva una più del diavolo e metteva d’accordo tutti. Il suo metodo era semplice, si basava sulla candida ignoranza di quella gente che si lasciava intronare dai suoi paroloni e spaventare quando affermava che senza la documentazione necessaria, spesso latitante, la transazione in atto si faceva complicata quando non impossibile. Una volta cotto a fuoco lento il cliente, il Giovio assicurava che con un poco di pazienza, il suo imprescindibile intervento presso uffici demaniali, giudiziari e finanziari, il necessario esborso di moneta sonante per ungere qualche ingranaggio e pagare improbabili tasse arretrate, bolli, permessi e autorizzazioni al fine di dare corpus tangibilis a una res nullius per le leggi vigenti, fosse una stalla, un appezzamento, una vigna, un bosco eccetera, l’affare si poteva concludere con piena soddisfazione delle parti: la sua, prima di ogni altra, visto che il Notaro intascava, oltre all’onorario, tutti i soldi che riusciva a pelare al malcapitato con l’aggiunta di eterna gratitudine, spesso tradotta con l’invio in quel di Como di prodotti tra i più vari in occasione delle principali festività.
Né il Notaro Giovio si arrendeva se il cliente confessava di non essere in grado di affrontare certe spese. In quel caso offriva la sua preziosa consulenza in cambio di una contropartita in natura: una o due vacche, un ettaro di questo o quel terreno, un pezzo di vigna o di bosco, quaranta piante di olivo. Merce di scambio, pedine di una scacchiera che si specchiava nel lago di Como e che lui muoveva, comprando e vendendo. Così che nell’arco degli anni poteva dirsi proprietario terriero con tanto di mezzadri al suo servizio.
Seguendo la sua coscienza, don Filo Parigi si era recato a Como per consegnare la lettera al Giovio. Nonostante l’ora tarda, aveva trovato lo studio chiuso. Chieste informazioni a un panificatore che aveva il forno proprio lì davanti, aveva dovuto aspettare tre ore buone prima che il Notaro si facesse vivo. Il fornaio gli aveva detto che il Giovio era appena rientrato dopo un giro d’affari che l’aveva tenuto lontano quattro giorni: in quel momento stava sicuramente dormendo e non era consigliabile disturbarlo.
Quando il pachiderma s’era svegliato e aveva aperto la finestra della sua camera da letto, che stava proprio sopra lo studio, don Parigi ne aveva richiamata l’attenzione.
Al Giovio i preti non andavano troppo a genio, riteneva che con loro non ci fossero possibilità di trattare affari lucrosi. S’era riconfermato in quell’idea dopo aver udito la storia del sacerdote e aver guardato di sguincio la lettera.
L’aveva presa in consegna, l’aveva lasciata cadere sul piano della scrivania, aveva promesso a don Parigi che ci avrebbe pensato ed era ritornato a dormire.