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Nel gennaio 1890, scivolando su una lastra di ghiaccio coperta da un velo di neve lungo la strada che conduceva alla latteria sociale di Albate, Caterina Orisanti era morta, uccisa all’istante dalla botta che le aveva sfondato l’occipite.
A nulla era valso l’immediato intervento del casaro Redivalsi il quale, anzi, vedendo il sangue che usciva copiosamente dalla ferita della donna, s’era lasciato prendere dallo spavento e non aveva saputo fare altro che mettersi a gridare, richiamando una folla di donne e pochi uomini, perlopiù invalidi o anziani, che avevano seguito l’esempio del casaro, riempiendo l’aria di strepiti e senza il coraggio di avvicinarsi all’Orisanti, alla quale peraltro non sarebbe più servito alcun tipo di aiuto. Il dottor Simmarelli, che all’occasione svolgeva anche funzioni di veterinario, era giunto un quarto d’ora dopo e non aveva potuto che constatare il decesso della donna.
Al curato di Albate, don Filo Parigi, era stato affidato il triste compito di raggiungere Domenico Ficcadenti per metterlo al corrente del luttuoso evento. Questi, stordito dalla notizia, era rimasto per qualche minuto a fissare il bottone cui stava lavorando (una delicata, nuova linea che riproduceva le forme delle foglie più varie), dopodiché era volato a casa, con il pensiero della Giovenca che di lì a poco aveva trovato in preda a un pianto disperato, così come l’aveva sorpresa la mattina in cui la sua madre naturale era scomparsa abbandonandola.
Donne volenterose s’erano occupate di lei nei giorni confusi della veglia e del funerale. Poi però, passati quei momenti, trovandosi solo, nella casa vuota con l’unica compagnia della bambina, al Ficcadenti s’era posto il problema. Aiuti domestici ne avrebbe trovati finché voleva ma non era propriamente di ciò che avevano bisogno né lui né, soprattutto, la bambina che aveva appena due anni.
Di una donna, piuttosto, che rimpiazzasse la povera moglie e si sostituisse a lei in funzione di madre.
Ne aveva parlato con il parroco don Parigi senza ricorrere a mezze parole: l’unica soluzione era risposarsi.
Non per sé, naturalmente. Dopo quell’arco di vita trascorso con la sua cara Caterina, non sentiva alcun bisogno di sostituirla, non ne aveva nemmeno, se così poteva esprimersi, la necessità fisica.
La bambina, piuttosto. Lei sì che aveva bisogno di una presenza femminile costante, che l’accudisse e la crescesse come si doveva.
Si affidava al prete per la scelta. Avrebbe accettato qualunque proposta, purché si facesse garante della serietà e della buona volontà della sua seconda moglie.
Don Parigi, pur protestando che il Ficcadenti lo gravava di una bella responsabilità, aveva comunque promesso che si sarebbe guardato in giro.
In verità, una mezza idea il sacerdote l’aveva già. Anzi, tre mezze idee. Tante erano le donne che aveva messo nella disponibilità della richiesta del Ficcadenti. Una, nubile, quarantenne, si era rivolta a lui più di una volta affinché le trovasse un marito; ma era grossolana e di scarsa igiene, ragione per la quale l’aveva subito scartata. La seconda aveva cinquant’anni come il Ficcadenti ma non era donna di chiesa, fumava il toscano e non era infrequente vederla giocare a carte in questa o quella osteria al pari dei maschi; caratteri, questi, che la rendevano inadatta allo scopo.
Ne restava una.
Anche lei qualche difettuccio l’aveva, non poteva negarlo. Imperfezioni, più che veri e propri difetti, niente a che vedere con le altre due.
Però…
Insomma, pur essendo sacerdote e dovendo badare più alle qualità dello spirito che non a quelle della carne, anche don Parigi si rendeva conto che il Ficcadenti avrebbe potuto storcere il naso.
Ragione per la quale aveva deciso, prima ancora di presentargliela, di convocarlo per cercare di prepararlo all’impatto.